venerdì 27 gennaio 2012

Memoria e polemica

E' venuta una signora ebrea a parlare all'assemblea della mia scuola. Deportata da bambina, del suo dramma ci ha dato una versione quasi fiabesca, soffermandosi sui deboli sprazzi di luce che le permettevano di non dimenticare cosa fosse la vita: i giochi nel giardino della casa dove la famiglia si era nascosta (prima abitavamo in un condominio, per noi bambini era una festa), il compleanno del cugino festeggiato sul treno (la mamma aveva tenuto da parte le uova e lo zucchero, ci fece uno zabaione) il "privilegio" di dormire con la schiena appoggiata al muro, la gioia, dopo la liberazione di sentire un lenzuolo pulito sotto i piedi, nel letto:
Sono piaceri che per provarli bisogna essere deportati.
Era una donna che portava la sua esperienza, senza nessuna pretesa di giudicare, né tantomeno di parlare per tutti. Come d'uso, dopo il racconto è venuto il momento delle domande. E' salito sul palco un ragazzo e ha chiesto alla signora la sua opinione sul conflitto israeliano-palestinese.
E' vero che ha detto più volte: Non vorrei che questa sembrasse un'accusa nei suoi confronti. Non ho ragione per non credergli. Il punto è un altro. Il punto è che di fronte a una testimonianza personale, a un richiamo a valori condivisi, si sente il bisogno di inquadrare tutto questo in un'ideologia o in un'altra. La prima persona a far risuonare la sua domanda nel silenzio intimidito della platea non vuole capire meglio quello che ha appena ascoltato; si preoccupa solo di chiarire un dubbio urgente: lei è con noi o contro di noi?
Anche a costo di allontanarsi da ciò di cui l'altra ha parlato per tutto il tempo. La signora era sempre vissuta in Italia, non era una storica né una politologa; certamente aveva una sua opinione al riguardo, ma era venuta a parlare di altro, di qualcosa che aveva vissuto sulla sua pelle.
In platea non c'erano neonazisti (o se c'erano non si sarebbero azzardati a parlare); per cui fare polemica sulla Shoah sarebbe stato impossibile. E allora qualcuno ha pensato bene di spostare la polemica sull'argomento più vicino. Che lo volesse o no il risultato è stato questo, perché il suo intervento ha richiamato sul palco una ragazza che la pensava diversamente da lui.
Ma perchè, per una volta che possiamo confrontarci su valori comuni, e approfondirli, e cercare di andare al di là delle parole, c'è chi sente il bisogno di stabilire confini e di buttare ogni cosa da una parte o dall'altra? Non dico che il problema sollevato dal ragazzo non sia urgente, né che sia privo di legami con la Shoah. Ma, come tutti i problemi attuali, è (giustamente) terreno di scontro. E forse prima di cominciare a scontrarci dovremmo provare a capire cosa condividiamo, da quali basi partiamo; e cercare di non mischiare questi due momenti, non aver fretta di cominciare a urlare. Perché per quello c'è sempre tempo; mentre per ascoltare e raccogliere la memoria di persone ormai ottantenni, ce n'è sempre meno.

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