giovedì 29 dicembre 2011

Kant, gli iceberg e il pappagallo

Scrivo ora questo post perché con la fine dell'anno vorrei chiudere i conti con Kant. Dalle domande e i trip mentali fatti scaturire da un uomo che non si è mai mosso dalla sua città -che ho evitato di esporre sul blog per non far scappare anche quei quattro gatti che lo frequentano- è nata una commedia, ma non la pubblicherò qui perché è decisamente imbarazzante e perché non ho ancora imparato a fare i collegamenti ipertestuali, ammesso che si chiamino così (viva l'analfabetismo informatico). Non è di questo che volevo parlare. La premessa serve solo per spiegare cosa mi ha spinta a ordinare online un libro di cui esistono solo dodici copie in commercio (ora undici).
Voglio dire: se voi scriveste una commedia su una delle persone meno adatte a scriverci sopra una commedia, e scopriste che trent'anni fa qualcun altro ha fatto lo stesso, anche se voi siete esseri inutili mentre l'altro è un maestro dell'assurdo, cosa fareste?
Eccolo qui: Immanuel Kant di Thomas Bernhard, scritto nel 1978, pubblicato in Italia una sola volta, nel 1999 (c'è il prezzo in lire, che tenerezza!) e rappresentato per la regia di Alessandro Gassman solo l'anno scorso.  Qui c'è una specie di trailer (ecco, forse questo è un collegamento ipertestuale; io però dovrei imparare a farlo con un documento di open office).
Quanti di voi odiano Kant saranno contenti di sapere che Bernhard lo stravolge, lo rovescia e lo decostruisce: lo mette su un transatlantico, un secolo dopo la sua morte (storica), insieme alla moglie che in realtà non ha mai avuto, in viaggio verso l'America. Kant, vecchio e famoso, sta diventando cieco. Solo un'operazione chirurgica potrebbe restituirgli la vista. Lui, in cambio, porta in America la sua ragione. Con lui viaggia una varia umanità -oltre alla moglie, una milionaria, un cardinale, un collezionista d'arte, uno steward-, maschere grottesche che conoscono la sua fama e lo leccano da tutte le parti, ma non potrebbero essere più lontani dal suo pensiero.
Kant stesso, d'altra parte, è incapace di comunicare: pronuncia solo sentenze criptiche e sconnesse, prive di legami logici, alternate con aneddoti surreali. Sembra parlare a se stesso, ignorando l'attenzione generale concentrata su di lui. Disprezza i suoi compagni di viaggio e l'America verso cui è diretto, ma non propone alternative. Nonostante questo, sente il bisogno di affermare la sua autorevolezza, in realtà irrimediabilmente perduta: rimbrotta la moglie che di fatto lo domina (è stata lei a spingerlo al viaggio), tormenta il servo; l'unico essere che lo gratifica è un pappagallo di nome Federico. Per lui Kant ha mille premure: si preoccupa che non venga esposto troppo alla luce, che abbia una cabina speciale insonorizzata, che assuma solo granelli perfettamente integri.
Insomma, Kant è messo male: l'unico confronto ancora possibile, per lui, è quello autoreferenziale con un pappagallo che ripete a memoria le sue teorie, e può solo dargli ragione; e per di più non si tratta di teorie compiute, ma di brandelli di frasi, parole incomprensibili inadeguate a comprendere, a spiegare, a proporre.
E' impossibile parlare della ragione in alto mare dice Kant, e non si può non pensare alla metafora del navigante nella Critica della ragion pura, sulla saldezza della conoscenza empirica e le lusinghe della metafisica:
Ma questo territorio è un'isola che la natura ha racchiuso in confini immutabili. È il territorio della verità (nome seducente), circondata da un ampio e tempestoso oceano, in cui ha la sua sede più propria la parvenza, dove innumerevoli banchi di nebbia e ghiacci, in corso di liquefazione, creano ad ogni istante l'illusione di nuove terre e, generando sempre nuove ingannevoli speranze nel navigante che si aggira avido di nuove scoperte, lo sviano in avventurose imprese che non potrà né condurre a buon fine né abbandonare una volta per tutte.
Non per niente la commedia è ambientata pochi anni dopo il naufragio del Titanic, ed è tutto un parlare di iceberg. Di fatto, a Bernhard la metafisica interessa poco, e per il suo Kant i ghiacci in corso di liquefazione sono l'illusione che, in cambio di qualche compromesso, ci sia posto anche per lui. Ci crede poco per la verità, ma ormai gli importa solo di essere formalemente onorato e di potersene stare in pace con Federico. Non gli riuscirà neanche questo. Non ci saranno gli iceberg, ma qualcosa di molto peggio.
In questa commedia grottesca e straniante il mondo sarà anche sordo ma la ragione, da parte sua, è diventata muta.

lunedì 26 dicembre 2011

Regali a costo zero

L'incomebenza dei regali, sotto Natale, penso metta un po' in imbarazzo tutti: prima di tutto a chi farli?
1. A quelli a cui vogliamo bene.
2. A quelli che ci stanno antipatici ma di certo ce lo faranno.
3. A quelli che non sappiamo se ce lo faranno ma se per caso ce lo fanno e noi diciamo "Acciederbolina, il tuo l'ho lasciato a casa" e poi glielo portiamo dopo una settimana capiranno subito che gliel'abbiamo ruffianamente comprato per ricambiare il loro e quindi è meglio giocare d'anticipo.
Comunque, il problema più importante non è a chi, ma cosa regalare. Personalmente, sono insofferente a tutti quei ninnoli che non hanno nessuna possibile funzione se non quella di venire appunto regalati a Natale (non per niente esistono negozi di "idee regalo": cioè, non di scarpe, cappelli, collane, cipolle, libri, zappe, vasi da notte o altri oggetti che abbiano una loro individualità ma di cose la cui esistenza culmina e si esaurisce nel momento in cui vengono scambiate tra due persone ugualmente disinteressate sia l'una all'altra  sia all'oggetto in questione). Se questi regali potessero pensare, soffrirebbero tutti di bassa autostima; se potessero agire, sotto Natale ci sarebbe un'ondata di suicidi tale da rovinare le feste a tutti. Immaginate di scartare un pacchetto e trovarci dentro un pupazzo di neve di peluche che si è impiccato con la sciarpa.
Ora, gli aggeggi non possono fare tutto ciò ma possono invaderci via via la casa fagocitando lo spazio e sottraendolo a quello che è davvero importante. Buttarli non si può (oltretutto non sono mai biodegardabili, e contribuiremmo all'inquinamento); usarli neppure perché non servono a niente.
Insomma, odio ricevere aggeggi (quest'anno mi è andata abbastanza bene, devo dire); e per coerenza cerco di non regalarli. Di solito mi butto sul fatto a mano (l'anno scorso ho cercato di traformare un trullo di gesso in una palla per l'albero, ma non è andata bene), o sul culinario: il cibo se non altro sparisce e non invade la casa.
Con alcuni regali però non me la cavo così facilmente: vedi il punto 1. Ci sono due modi di dimostrare a una persona che è importante per te: spendere un sacco di soldi, oppure cercare qualcosa che in un modo o nell'altro parli di lui o di lei. Quest'anno sono stata pigra e ho fatto biscotti per tutti gli amici, più e meno stretti (credo che abbiano gradito, comunque). A mio padre volevo comprare una bottiglia di Macallan, non perché dovesse berla ma per richiamare La versione di Barney.
Visto che l'ho nominato dirò due parole su questo libro, secondo me uno dei più geniali scritti alla fine del Novecento. Nella finzione narrativa un produttore di tv spazzatura, sputtanato nell'autobiografia di un amico di gioventù, decide di dare la sua versione dei fatti. Senza farsi sconti, autolelogiarsi o giustificarsi, con una sincerità e un'autorionia spiazzanti Barney ripercorre la sua vita -da bambino povero del quartiere ebraico a pezzo grosso dell'industria televisiva, passando per tre matrimoni, una gioventù scapestrata a Parigi e un'accusa di omicidio-, racconta le sue depravazioncelle, i suoi compromessi, le sue liberatorie ribellioni (liberatorie per il lettore, che trova uno spiraglio d'aria fresca nella densa coltre del politicamente corretto), desublima e rovescia tutto, tranne quello che veramente conta: l'ultima, adorata moglie e i figli. L'anno scorso è uscito il film, che non è male; ma il libro dà tutta un'altra pienezza. Pochi libri fanno veramente ridere, e La versione di Barney è uno di questi. Sarebbe da regalare, ma Natale è appena passato. Magari dovevo scriverlo prima.
Comunque, tornando a noi: Barney beve Macallan. Sono candidamente entrata nell'unico negozio di Firenze che lo vende e ho chiesto il prezzo. Poiché non sono una produttrice televisiva ricca da far schifo, non l'ho trovato abbordabile. Ma ormai mi ero innamorata di questa idea e non volevo rinunciare. Ho trovato in casa una bottiglia di Glen Grant (remoto regalo non si sa più di chi che da decenni prendeva la polvere nell'armadietto dei liquori di una famiglia praticamente astemia). Ho preso la scatola di cartone, ho scaricato da Internet la foto di una bottiglia di Macallan delle stesse dimensioni e l'ho attaccata su tutti i lati. Dentro ci ho messo una bottiglia d'acqua di rubinetto.
Devo dire che lo scherzo è riuscito benissimo, mio padre non si è neanche accorto dello scotch e ha pensato incredulo di avere davanti un Macallan invecchiato di dodici anni fino a quando non ha aperto la scatola.
Voi mi direte: "Ma alla fine non gli hai regalato nulla."
E' vero. Però ci siamo fatti le risate.

domenica 11 dicembre 2011

I fiori blu

Siano sempre benedetti i consigli degli amici: per altre vie, mai sarei arrivata a scoprire questo delizioso romanzo scritto da Raymond Queneau nel 1965 e tradotto da Italo Calvino.
Cidrolin vive su una barca. Di lui sappiamo che è stato in prigione (per un errore giudiziario, dice) e che ha tre figlie (due sposate; la terza convola a nozze nel corso del libro con un non troppo convinto dipendente dei trasporti pubblici). Cosa fa Cidrolin nella vita? Beve essenza di finocchio, esaspera i passanti, dà indicazioni ai campisti che cercano il campo da campinghe poco lontano, cancella le parole diffamatorie scritte ogni notte sul bordo della chiatta da un vandalo misterioso. Principalmente, dorme.
Sogna di essere il duca d'Auge, signore feudale nella Francia del 1264. All'inizio, almeno: da una dormita all'altra, lo ritroviamo all'epoca della guerra dei Cent'anni, poi nel Seicento, poi alla vigilia della Rivoluzione Francese. Anche il duca d'Auge ha tre figlie; in più ha un cappellano (poi promosso vescovo) che si diverte a scandalizzare, un fido paggio, un cavallo chiamato Demostene perché parla. Anche il paggio ha un cavallo, chiamato Stéphane perché di poche parole. Come Cidrolin, il duca d'Auge non ha un granché da fare nella vita; si diverte però a riempirla con occupazioni fantasiose: batte le figlie, sperimenta cannoni, protegge un amico cannibale, sposa la figlia di un boscaiolo (salvo poi battere anche lei), ingaggia un alchimista. Mentre a Parigi infuria la Rivoluzione, lui sconvolge l'abate mostrandogli graffiti primitivi nelle caverne del Périgord. Fino al finale, che non svelo.
Detto questo, però, si affaccia una prima questione: è Cidrolin che sogna di essere il duca d'Auge, o è il duca d'Auge che sogna di essere Cidrolin? Su questa ambiguità tra realtà e finzione si basa buona parte del romanzo, in un continuo gioco di scambi, duplicità e coincidenze che rosicchia pian piano le certezze e gli schemi mentali del lettore. Per apprezzare questo romanzo bisogna abbandonarsi al continuo piacere dell'illogico e dell'inaspettato. Sia Cidrolin che il duca sono cultori del paradosso; anche se il primo rimane placido e amabile di fronte agli interlocutori confusi, mentre il secondo si offende, si infiamma e molla pedate a chi non è d'accordo.
Queste due vite senza scopo sono attraversate da considerazioni sulla storia, sul linguaggio, sull'esistenza. Questi dialoghi in realtà sono la punta dell'iceberg, sorridenti indizi per decifrare quello che c'è dietro a una storia scritta in apparenza solo per divertimento. Confesso che io ancora non ci sono riuscita; molte cose si intuiscono confusamente: insomma, non c'è bisogno di essere filosofi per scorgere tra le righe l'idea dell'inutilità della vita, della fuga dalla realtà, della mancanza di certezze e di basi solide su cui costruire (non a caso Cidrolin vive su una barca). A un mondo che non offre un senso né una spiegazione non si può che rispondere con lo sberleffo nonsense.
Probabilmente, poi, c'è molto altro. Ma anche lasciando perdere il sottofondo filosofico si può amare questo libro per la continua invenzione linguistica, per gli eventi banali stigmatizzati fino all'estenuazione e gli eventi incredibili trattati con la massima nonchalance, per i gesti quotidiani decostruiti come alla moviola, insomma per la capacità di presentare la realtà da un punto di vista straniato rovesciando continuamente le nostre aspettative.

Cidrolin e sua figlia Lamelia:

-Sapevano disegnare da maledetti, quei paleolitici lì. I loro cavalli, i loro mammut, ffuit... così, -(gesto).
-Tutti falsi.
-Cosa intendi dire?
-Sono tutti dei falsi.
-Ah! Se fossero dei veri falsi, si saprebbe.
-Io lo so.
-E come lo sai?
-Mah.
-Te lo sei sognato?
-E' un tale del Settecento che ha dipinto tutto.
-E perché l'avrebbe fatto?
-Per fare incazzare i preti.
-Scherzi, papà. sogni. Faresti meglio a comprarti la tivù, ti faresti una cultura.

Il duca d'Auge e il suo amico conte spagnolo:

-No. E' sulle pareti delle caverne che dipingo.
-Ma, Joachim, chi le vedrà mai, queste vostre opere?
-Gli storici della preistoria.
-Ecco un'esperessione francese che ignoravo. Che vuol dire?
-Ve la spiegherò più tardi. Ditemi, non conoscete qualche posto del genere dove possa esercitarmi?
-Ve ne sono proprio sulle mie terre,- rispose il Conte Alataviva y Altamira.

Insomma, dopo aver letto questo libro ho cominciato a chiedermi se tutta la letteratura, e la storia, latina e greca non siano in realtà state inventate per ingannare la noia del convento dai copisti medievali.