mercoledì 4 luglio 2012

Ne pizzicau lu core mamma mia ci dulore

Dopo quarantacinque giorni di silenzio, dovrei forse parlare di Heidegger e Hannah Arendt, del letamaio nella versione di greco, delle regole d'impaginazione della tesina, della commissione che distribuiva confetti alla fine dell'orale o delle cose che affliggono me e le persone intorno a me (perché la maturità non è l'inizio, ma la fine della libertà -e nessuno ce l'aveva detto).
Invece parliamo della pizzica. Uno dei vantaggi dell'avere un'amica pugliese è poterla accompagnare a un concerto di musica salentina in trasferta a Firenze (La notte della Taranta, diretta da Ludovico Einaudi); perché è certo che, se non le avessimo regalato il biglietto per il compleanno, io da sola non avrei mai avuto il coraggio di andarci.
Ora, devo dire che il nuovo teatro dell'opera di Firenze è brutto. Un'enorme astronave bianca e grigia adagiata in fondo a un viale, lunghe fughe prospettiche spoglie e un po' inquietanti. La cavea  alla'aperto, dove si è svolto il concerto, è costruita sul tetto digradante  del teatro. Una bella idea, se non non fosse che quando il pubblico si è alzato in piedi a ballare il pavimento ha cominciato a oscillare. Dettagli.
La musica del Salento è coinvolgente e ossessiva, un patrimonio antichissimo reso vivo dalle reinterpretazioni moderne. Nell'orchestra c'erano anche strumenti africani e australiani (nonché -questo non me l'aspettavo proprio- una cornamusa pugliese). Dietro a questi ritmi ora malinconici ora indiavolati c'è una cultura pagana che il cristianesimo ha cercato inutilmente di reprimere; resti, forse, dei rituali dionisiaci, ma anche il dramma delle donne "tarantate" (possedute dal demonio per la società; in realtà il "morso della tarantola" era lo sfogo isterico delle violenze domestiche). La cultura popolare ha esorcizzato questo lato oscuro traendone una danza piena di vitalità, dove tutti ballano con tutti in un momento di grande libertà.
Tra le voci dei cantanti, ce n'è una indimenticabile: Enza Pagliara, non a caso la cantante preferita della mia amica. Una donna alta, con i capelli neri, il viso scavato, non bella ma come animata da una nobiltà selvaggia. Urla senza stonare con una voce tagliente, a tratti dolorosa, ma sempre piena di energia. Mentre canta fa ondeggiare le braccia con movimenti lenti, come cercando continuamente un nuovo equilibrio,  o attirando il pubblico a sé.
Ludovico Einaudi, piemontese con la paglietta prestato alla musica del Sud, suona il piano, muove le braccia, incita il pubblico. Guardandolo vine da pensare: ecco un uomo che si diverte a fare il suo lavoro. E vorrei anche vedere.

domenica 20 maggio 2012

Andiamo Baccanti, andiamo

Sì, forse è il caso di parlare anche dei miei lividi. Che, rispetto a una settimana fa, sono raddoppiati. Devo ringraziare una ragazza esperta di acrobazie se al regista è venuta la sadica idea di farci cadere una per una giù dal palco; ma devo ringraziarla anche per averci insegnato a farlo senza ucciderci. A teatro capita anche questo.
Solo due settimane fa eravamo ventiquattro sconosciuti (ventiquattro, vorrei sottolineare), abituati a incrociarsi nei corridoi della scuola senza considerarsi troppo, alle prese con un testo molto bello ma difficile da recitare e uno spettacolo da montare in fretta e furia. Le Baccanti di Euripide si prestano a essere fraintese: troppo facile semplificare, appianare la tensione che percorre la tragedia e schierarsi dalla parte di Dioniso o da quella di Penteo. Fior di studiosi si sono scannati per capire da che parte stesse Euripide. Io credo che il poeta si limiti a constatare una realtà: Dioniso, e tutto ciò che gli è associato, dona la gioia, la libertà, l'adesione vitale alla natura a chi lo accetta serenamente; con chi gli oppone un rifiuto frontale, invece, si rivela perverso e distruttivo. A chi lo considera contro natura fa fare cose contro natura, fino ad arrivare al dramma più grande, quello della madre che uccide il figlio senza riconoscerlo.
Non è facile confrontarsi con questa ambivalenza per ventiquattro ragazzi, molti dei quali non hanno recitato nemmeno alla veglia dell'avvento al catechismo. Ognuno con le sue esigenze, i suoi interessi, la sua vita di tutti i giorni, lo studio, le ripetizioni: difficile pensare alle donne invasate sul monte Citerone, sentirsele dentro, quando hai due orette a settimana per farlo. Aggiungete un regista un pochino narcisista e vagamente autoritario; ma anche, per fortuna, due aiuto registe sante che a un certo punto prendono i mano la situazione, ci costringono a chiederci perché siamo lì a dire frasi sui tirsi e le cerve nel bosco anziché a fare qualcos'altro. A capire cos'è il teatro per noi, chi è Penteo, chi è Dioniso, chi sono queste donne ora sagge ora invasate che interpretiamo.
Il miracolo è successo nell'ultima settimana, quando abbiamo provato in teatro tutti i giorni e montato diversamente alcune scene.  Ora dopo ora, lontani dalla nostra vita di tutti i giorni, siamo entrati dentro alle battute, le abbiamo urlate alla platea vuota, abbiamo sentito la tensione correre dentro di noi mentre strisciavamo per terra o ci appiattivamo contro il sottopalco per non farci vedere da Penteo. Saimo diventate un corpo unico, variegato e magmatico, una presenza sempre incombente sulla scena: e ci è venuto naturale, dopo tutte le ore passate insieme, a conoscersi, a preoccuparsi e a ridere per le stesse cose.
Ho riscoperto una cosa che avevo dimenticato: il teatro non è finzione. E' un'occasione per capire quante persone diverse possiamo essere, se solo riusciamo a scovarle dentro di noi, prenderle per mano e portarle allo scoperto. Io mi distraggo spesso; ho sempre la mente che vaga nel passato o nel futuro. Il teatro invece è qui e ora: uno strordinario esercizio di presenza e di concentrazione.
E così uno spettacolo in cui nessuno credeva è diventato uno dei più apprezzati degli ultimi anni; e quando tutto è finito è rimasto un grande vuoto in tutti noi, una difficoltà a rientrare in quella vita quotidiana che solo due settimane fa ci teneva lontani dal teatro. Ci resta la complicità che ci unisce e ci distingue dagli altri, quando sentendo qualcuno dire andiamo!  ci viene da aggiungere: e portiamo il dio per i sentieri di Tebe!, e a questa è Sparta!  vorremmo ribattere: questa è Tebe! Ingrata! Ingrata!

venerdì 11 maggio 2012

Un passante chiede la strada

Lo so, è squallido scrivere un post ispirandosi a un altro post. Ma quando qualcosa ti regala cinque minuti di spensieratezza, è normale che venga voglia di cimentarsi.
Sì, va bene, si parla di nuovo di filosofi. Non so che farci, magari potrei scrivere dei lividi che mi sono procurata buttandomi giù dal palco durante le prove delle Baccanti per assecondare il sadismo del regista, ma non so quanto l'argomento sarebbe interessante. Mi auguro che stavolta, se non altro, i filosofi facciano ridere.

Hume cammina. Un passante gli chiede la strada per la biblioteca.
Hume: "Guardi, l'ultima volta che ci sono stato ho preso la prima a destra, ma non me la sentirei di darle informazioni per il futuro in base all'esperienza del passato."

Kant cammina. Un passante gli chiede la strada per la biblioteca.
Kant: "Deve prendere la prima a destra."
Passante: "Ma è sicuro? Perché Hume mi ha detto che..."
Kant: "Vuole che le spieghi come ho fatto a capirlo?"
Il passante prende la prima a destra.

Orazio cammina. Un passante si avvicina.
Orazio fugge urlando non isto vivimus illic quo tu reris modo!

Filippo Tommaso Marinetti cammina (vabbe', il mostro giapponese è dal meccanico). Un passante gli chiede la strada per la biblioteca.
Marinetti (con un ghigno sadico, brandendo ancora un tizzone acceso): "Quale biblioteca?"

Kierkegaard cammina. Un passante gli chiede la strada per la biblioteca.
Kierkegaard: "Non posso dirglielo io o la priverei della sua unicità di individuo! Deve scegliere lei e affrontare la possibilità del nulla in agguato dietro l'angolo!" Pausa. "Comunque se le interessa la seconda a sinistra porta alla chiesa."

Umberto Eco cammina. Un passante gli chiede la strada per la biblioteca.
Eco: "La prima a destra."
Passante: "Grazie."
Eco: "E' stato bello conoscerla."

Schopenhauer cammina. Un passante gli chiede la strada per il Comune.
Schopenhauer: "Scusi, perché non va in biblioteca anche lei?"
Passante: "Sa com'è, mi dovrei sposare."
Schopenhauer: "E' apparenza! Velo di Maya! Lei va in Comune a rendersi schiavo della volontà di vivere e generare nuovi esseri infelici! Segua con me la strada dell'asce..."
Passante: "Vabbe', vado a chiedelo a Hegel, eh?"

Hegel cammina. Un passante gli chiede la strada per il Comune.
Hegel: "Dunque, deve passare da casa sua, stare un po' con la sua famiglia, poi andare al lavoro, farsi qualche bella litigata, farsi arrestare, processare, capire quanto è conflittuale la società civile, e quando l'ha capito vedrà che arriva dritto diritto in Comune. Poi faccia un salto alla galleria d'arte, tanto per capire che l'arte è una cosa del passato, un salto in chiesa, tanto per rendersi conto che la religione è ancora legata alla rappresentazione, poi torni qui da me e non potrà non riconoscermi come la più alta manifestazione dello Spirito."
Il passante torna a cercare Schopenhauer. Ma ormai è morto.

Marx cammina. Un passante gli chiede la strada per il Comune.
Marx: "Se torna con una sessantina di proletari armati forse le rispondo."

Freud cammina. Un passante gli chiede la strada per il Comune.
Freud: "Se le dico Comune a cosa pensa?"
Passante: "Io le ho chiesto la strada."
Freud: "Noto in lei una tenace resistenza al metodo psicanalitico."

Comunque, tutti costoro hanno dato informazioni più utili di quelle che do io quando qualche malacapitato mi chiede la strada.

martedì 24 aprile 2012

Il folle (ovvero, una precisazione non richiesta)

Da un po' di tempo in questo blog si parla solo di filosofi. So che i suoi scarsi frequentatori bramano post ambientati in pizzicheria, e in questo modo sto rischiando di perdere pure loro. Ma ho bisogno di mettere qualcosa in chiaro sulla commedia. La situazione è già di per sé abbastanza strana, perchè lo scopo di questo post è rispondere a un'obiezione che nessuno mi ha fatto. Potrei dire che la sto prevenendo, ma anche questa definizione è fin troppo lusinghiera, perché pochissime persone hanno letto la commedia, e pochissime di queste stanno anche leggendo quanto scrivo ora; e anche costoro hanno di certo cose migliori da fare che muovermi obiezioni. Per cui questo post serve soprattutto a me, per affrontare un fatto inquietante che si è verificato.
Ora, verso la fine della commedia su Kant c'è un pazzo che parla in piedi sulla cattedra di un'aula universitaria. A un certo punto dice: Forse Dio esisteva ma è morto. Si dà il caso che anche un altro pazzo, molti anni dopo Hans e molti prima della commedia, abbia detto la stessa cosa.
Beh, non lo sapevo. Il folle della commedia non è il bisnonno di Nietzsche, ho letto il brano della Gaia scienza solo una settimana fa e mi è pure preso un colpo; il discorso di Hans, poi, verte su altro, e la frase doveva servire solo, come quelle che la precedono e che la seguono, a creare un'atmosfera straniata rispetto ai procedimenti logici ordinari. Lo sproloquio non è una rivelazione, e probabilmente non l'avrei nemmeno inserito se non avessi avuto bisogno di un espediente per convincere Kant a darsi una mossa.
Insomma, non volevo rompere le scatole con inquietudini moderne a un uomo che ha provato, quando ancora era possibile, a rifondare le basi di un sapere e di una morale stabili (questo lo fa Teresa, non io). Forse anziché scrivere questo post avrei fatto prima a eliminare la frase. Sarebbe stata un'occasione per togliere anche le battute che non fanno ridere. Ma non so come si fa (credo che dovrei rimuovere tutta la commedia, modificare il file sul mio computer e poi caricarlo di nuovo, e la cosa mi fa un po' fatica).
Bene, dichiarata la mia innocenza forse vale la pena di riflettere un po' su questo fatto. Infatti, anche se non pensavo a Nietzsche quando ho scritto quella scena, non me la sento nemmeno di dire che è stata solo una coincidenza. Nietzsche, nel bene e nel male, ci ha consegnato la realtà in cui viviamo, e non è necessario averlo letto per esserne influenzati. E' incredibile quanto abbia permeato non solo la filosofia, ma anche il senso comune (anche se forse sarebbe più giusto dire che sono state le trasformazioni sociali e culturali in atto a influenzare lui). Siamo una società fedele alla terra, anche se non abbiamo bisogno di dirlo con toni così enfatici e iconoclastici (d'altra parte non è rimasto più nulla da distruggere).
In realtà Nietzsche, tutto preso dalla sua foga di distruggere ogni cosa, si è reso lui stesso vulnerabile. Con le sue affermazioni a effetto, poco argomentate e per paradosso quasi dogmatiche, si è innalzato tanto da fermarsi appena un passo prima del ridicolo. E in effetti sarebbe davvero facile ridere di lui se avessimo un'alternativa al suo pensiero, se non sentissimo che in qualcosa ha ragione. Certo, in un secolo e mezzo la stessa mentalità comune che ha accolto Nietzsche l'ha anche corretto: morto Dio, gli uomini restano uomini. Tutti. Ed essere liberi non vuol dire che tutto è permesso. Ma di certo ci siamo abituati a vivere senza punti di riferimento assoluti (nel migliore dei casi) oppure abbiamo sostituito ad essi quelli legati alla nostra individualità. La fantomatica umanità liberata di Nietzsche forse non è peggiore di quelle che l'hanno preceduta (se si eccettuano le degenerazioni di cui il filosofo è stato responsabile fino a un certo punto); ma non è neanche migliore. Di certo ora come ora non potremmo proporre altro; ma sarebbe bello, un giorno, poter ridere anche di Nietzsche.

P.S. Comunque, per quanto riguarda la morte di Dio, un mio amico sostiene che Dio si è suicidato quando ha visto cos'aveva creato.

domenica 15 aprile 2012

Varchi e cose simili

Tempo fa mi ripromettevo di tornare a parlare di Montale entrando un po' di più nel merito. L'occasione è data da un compito di italiano che ho dovuto finire e consegnare in fretta e furia sotto gli occhi irremovibili  (vabbe', affascinanti e irremovibili) del mio professore che aveva fretta di andarsene. Fare in due ore un compito pensato per essere svolto in sei si porta dietro qualche inconveniente: ad esempio, l'ultima colonna è sempre una giungla di geroglifici che una volta decifrati si rivelano frasi sconnesse e idee non spiegate. E stavolta, la sensazione di non essere riuscita a dire tutto è più forte.
Per cui ricominciamo. Qui almeno non sono obbligata a individuare i versi sdruccioli.
La casa sul mare
ll viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l'anima che non sa più dare un grido.
Ora i minuti sono eguali e fissi
come i giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d'acqua che rimbomba.
Un altro, altr'acqua, a tratti un cigolio.
Il viaggio finisce a questa spiaggia
che tentano gli assidui e lenti flussi.
Nulla disvela se non pigri fumi
la marina che tramano di conche
I soffi leni: ed è raro che appaia
nella bonaccia muta
tra l'isole dell'aria migrabonde
la Corsica dorsuta o la Capraia.
Tu chiedi se così tutto vanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell'ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti che no, che ti s'appressa
l'ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s'infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi.
Vorrei prima di cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei sommossi campi
del mare spuma o ruga.
Ti dono anche l'avara mia speranza.
A' nuovi giorni, stanco, non so crescerla:
l'offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.

Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m'ode
salpa già forse per l'eterno.
Anche senza questo, amerei Montale per la sua capacità di esprimere la fatica e l'asprezza dell'esistenza, per la messa in discussione del ruolo della poesia al di là della retorica, per la ricerca problematica di valori autentici da contrapporre alla stupidità, all'ignoranza, al conformismo del momento storico (e non solo).
Ma quando si comincia a parlare di varchi, come in questa poesia -o nei Limoni, ad esempio- ho bisogno di fare un discorso un po' più lungo.
Nella poesia di Montale c'è un tentativo continuo di uscire dal movimento circolare e ripetitivo del tempo, che scandisce la vita umana, e accedere all'infinito -o all'assoluto, o a una dimensione metafisica, comunque si voglia chiamarla: insomma, di cogliere il senso complessivo e profondo dell'esistenza, che altrimenti si presenta come una catena meccanica e insensata di cause ed effetti. Ma il varco ogni volta si dilegua appena intuito (come nei Limoni) oppure appare fin da subito impenetrabile (come in Meriggiare pallido e assorto). Il viaggio dell'uomo finisce sulla spiaggia, nell'aria appesantita dai mulinelli di sabbia e dal vento. Lì vicino, la pompa idraulica ripete i suoi movimenti sempre uguali. Il mare è inaccessibile, l'orizzonte è coperto. Il vate che si fonde panicamente con la natura e ne espugna i segreti è un'illusione buona per i lettori  di d'Annunzio; Montale sa che neanche il poeta può sottrarsi all'immanenza e alla ciclicità opprimente del tempo. Può farlo, forse, la donna che è con lui. L'autore lascia aperta la possibilità che alcuni possano accedere a una dimensione superiore, ma sembra sperarlo più che crederlo; come se avesse bisogno di sapere che esiste, almeno in sé, un senso che vada al di là dell'aridità della nostra vita fisica.
Ecco, visto che ho scritto in sé quacuno avrà già capito dove voglio andare a parare. Non lo faccio apposta a infilare Kant ovunque, ma La casa sul mare somiglia in modo impressionante a un passo della Critica della ragion pura  che ho già citato in questo post. Kant, proprio nel momento in cui afferma che il mondo è sottoposto allo spazio, al tempo e al meccanicismo perchè questo è l'unico modo in cui le nostre facoltà riescono a inquadrarlo, lasciando intravedere l'esistenza di una cosa in sé che vada oltre, si affretta a chiudere questa possibilità, perché l'uomo non deve perdere tempo con ciò che non può conoscere. Finiti come siamo, non possiamo andare oltre il fenomeno; ma questo, per quanto riduttivo, è l'unica base solida su cui possiamo costruire la nostra conoscenza. Anche se l'uomo ha un insopprimibile bisogno di assoluto, a pretendere troppo ci si arena negli errori e nella confusione.
Questa conclusione può soddisfare un filosofo che si muove in una prospettiva più che altro scientifica, non un poeta della crisi. Montale sa che l'uomo è un anello della catena naturale sottoposto a una necessità cieca, o almeno questo è ciò che può sapere di sé: ma la cosa non è rassicurante, è frustrante. E' frustrante non poter scoprire l'anello che non tiene, non poter sovvertire ogni disegno. Forse tutto questo dipende anche dal momento storico: quando un movimento nasce dal nulla e in pochi anni si impone come regime senza incontrare ostacoli significativi, è difficile pensare di poter sovvertire i disegni della storia (quello che poteva essere evitato si verificò di fatto come se fosse una necessità ineluttabile); quando dall'alto si tende ad appiattire, a massificare e a sopprimere la libertà, è facile sentirsi imprigionati in una ciclicità senza scopo, e desiderare qualcosa che vada al di là. Montale ha troppa onestà inellettuale per rifugiarsi in una visione consolatoria, sa di non poter attraversare il varco, ma non accetta quest'idea con la stessa serenità di Kant.
Ora. Anche sulla serenità di Kant, in realtà, non metterei la mano sul fuoco: dopo il 1781, sistemati i conti con la scinza e non dovendo più preoccuparsi di distinguere cos'ha validità teoretica e cosa no,  ha passato la vita a cercare di rendere l'uomo, e il mondo che lo circonda, qualcosa di più che semplici ingranaggi.
Nella Critica della ragion pratica il modo per sottrarsi al fenomenico è l'azione morale: come corpo l'uomo è sottoposto alle leggi della natura, ma quando sceglie di agire moralmente è libero. Nella Critica del Giudizio Kant si sbilancia, e dice che nella bellezza siamo autorizzati a scorgere una finalità, e che nell'ordine della natura possiamo intuire un'intenzione, e forse anche pensare che qualcuno l'abbia creata per noi. Purché questo bisogno umano non pretenda di avere validità scientifica, e di elevarsi a certezza. (tutto questo non centra molto con Montale; ne ho parlato solo per dire che neanche Kant, alla fin fine, è riuscito ad accontentarsi del fenomenico).
Tra Kant e Montale ovviamente c'è Schopenhauer, è lui il primo a non accettare il fenomeno. Da Schopenhauer (e da Leopardi) Montale prende non solo questa storia dei varchi e dei veli squarciati, ma anche l'idea della vita come fatica e sofferenza. Tra i due sinceramente non so chi è più pessimista: uno riesce senza troppi problemi a lacerare il velo, ma quando arriva alla cosa in sé si accorge che è proprio quella il fondamento della sofferenza umana, che è la volontà di vivere a toglierci ogni libertà. Per Montale invece il dolore e l'insensatezza appartengono al fenomenico, nella metafisica c'è un senso e un sollievo. Peccato non poterci arrivare.
 (Mi scuso se questo post è particolarmente lungo)

venerdì 6 aprile 2012

Quasi mai, suvvia

Il riassunto della mia giornata dell'altro ieri può servire da esempio di come, nel 2012, la ricerca di un brano possa ancora rivelarsi relativamente avventurosa. E anche di come un lavoro del genere sia molto più appassionante, e dia alla fine molta più soddisfazione di quella che avrei potuto ricavare cercando le corrispondenze interne nell'Estetica di Hegel su Google libri (che non esiste).
Andiamo con ordine. La mia professoressa di filosofia mi porta gentilmente l'opuscolo di Bodei di cui mi hanno parlato. Mentre lei segna le assenze, scorro velocemente le pagine e trovo il brano incriminato. Alla fine della lezione glielo mostro e lei mi consiglia di cercare l'Estetica nella biblioteca della scuola. (avanza anche il sospetto che io abbia letto l'opuscolo anziché seguire la lezione, ma io ho preso appunti e posso dimostrarlo).
Ora, per entrare nella biblioteca è richiesta l'autorizzazione scritta di un insegnante. La ottengo e la mostro ai custodi. Entro nella saletta A e scopro che i testi di filosofia sono nella saletta B (sì, la mia scuola avrebbe anche una biblioteca degna di questo nome se non fosse stata trasformata in teatro nell'Ottocento -teatro a sua volta inaccessibile perché in restauro da una decina d'anni). Mi faccio aprire la saletta B. Guardo tra Gadamer e Heidegger e scopro che tra le opere di Hegel non c'è l'Estetica. Presa dallo sconforto, esco ma una mia previdente compagna di classe mi fa notare lo schedario. Sì, di solito le persone normali lo consultano prima di guardare tra gli scaffali e non dopo, ma io a quanto pare avevo troppa fiducia nella capacità enciclopediche e classificatorie della mia scuola per pensare che l'Estetica potesse trovarsi due scaffali sotto le altre opere di Hegel. Come in effetti è. Con rinnovata fiducia vado a cercare il volume 1199 e scopro che i titoli da 1189 a 1200 sono spariti. Ormai però ho capito come funzionano le cose: guardo nello scaffale sotto e trovo l'oggetto del mio desiderio, privo di qualsiasi legame numerico o alfabetico con i due libri ai suoi lati. Comincio a sfogliarlo stando attenta a non leccarmi le dita (a questo punto c'è da aspettarsi qualunque cosa) e trovo l'indice analitico. I miei pensieri ormai si sono fatti sconnessi, comincio a cercare corrispondenze per Rossini, Sterne, humour ma non mi passa proprio per la testa di cercare sotto umorismo. Per fortuna, due pagine dopo un inutile (per me) brano su Cervantes trovo il paragrafo che cercavo. E nemmeno compare un bibliotecario pazzo a mangiarsi il libro: gioia infinita!
Perciò la sua attività principale [dell'umorismo] consiste nel far in sé decomporre e dissolvere, ad opera della potenza di trovate soggettive, lampi di pensiero e sorprendenti modi di concepire, tutto ciò che pretende di farsi oggettivo e di acquistare una forma fissa della realtà o che sembra possederla nel mondo esterno.
Ora non è esattamente quello che mi aspettavo: a questo punto penso che il discorso sulla fine di un'epoca sia una rielaborazione di Bodei sulla base di osservazioni sparse qua e là (anche se in qualche modo si può considerere implicitamente contenuto anche in questo brano). Il concetto sta a monte, è più generale e a pensarci bene  è proprio quello che cercavo come fondamento della tesina: il riso non serve, come dice Bergson, alla società per correggere l'automatismo e la rigidità degli individui, ma agli individui per spintonarsi tra loro e soprattutto dare una spinta alla società nel suo complesso, quando questa si stabilizza, si adagia e si propone come un sistema di valori assoluti (non è un'idea molto originale, ma d'altra parte non sto scrivendo una tesi di laurea).
Ora, Hegel è naturalmente diffidente verso uno strumento del genere -di qui i giudizi negativi che avevo trovato in un primo momento. Dedica solo un paio di pagine a un problema potenzialmente così importante nel suo sistema: dissolvere tutto ciò che pretende di farsi oggettivo, mica noccioline (anche se l'Estetica è stata sistemata dagli allievi, e vai a sapere cos'hanno combinato); fa attenzione a distinguere un umorismo autentico da uno piatto e banale; parla di un girovagare del tutto ingenuo, lieve, inapparente, è molto prudente (non si sa mai che a qualcuno venga in mente di far decomporre anche il punto d'arrivo di tutte le triadi, che per pura coincidenza è la sua filosofia).  Tutto ciò che è razionale è reale, la critica seria puzza un sacco, figuriamoci quella che fa ridere. 
Già, ma Hegel è pur sempre il filosofo della dialettica e, per quanto tenti di limitarlo e ridimensionarlo dopo la forza dell'affermazione iniziale, non può non riconoscere l'importanza di un principio che sta alla base del movimento. E infatti parla dell'umorismo nel capitolo sulla dissoluzione dell'arte romantica. C'era pur bisogno di qualcosa che spiegasse come si passa dal culmine di una triade all'inizio di quella successiva. Insomma, tornando alla questione se si possa dar fiducia a Hegel: ha detto qualcosa di molto significativo e interessante, suo malgrado.                        

domenica 1 aprile 2012

Mai fidarsi di Hegel

Dare fiducia a Hegel e alla sua capacità di dire qualcosa di apprezzabile non si sta rivelando una buona idea. Chi nella storia ci ha provato è stato insultato a suon di vacche nere, quindi avrei dovuto saperlo; ma andiamo con ordine.
Ora, come argomento della mia tesina ho scelto il riso, inteso come strumento della libertà di pensiero e dell'onestà intellettuale contro i dogmi, i fanatismi e i fantasmi della nostra mente. Forse via via che la cosa prende forma ne parlerò più diffusamente; per ora mi interessa Hegel.
Di solito quando parlo di quest'idea alla gente ottengo battute infelici del tipo: "Ma fai la tesina su un cereale?" (almeno siamo in tema, se il titolo è già di per sé un motto di spirito). Invece l'ultima persona con cui mi sono confrontata mi ha risparmiato il facile umorismo e mi ha consigliato di prendere in considerezione anche Hegel. A sentire lui, per Hegel il riso conclude un'epoca: le commedie di Aristofane chiudono la Grecia classica, Sterne e Rossini chiudono gli ultimi strascichi dell'era feudale.
L'idea in realtà non è troppo convincente: mi sembra piuttosto che il riso accompagni un'epoca in tutte le sue fasi, provvedendo costantemente a giudicarla e correggerla, come d'altra parte dovrebbe fare la stessa filosofia (ma questo Hegel, si sa, non poteva accettarlo). Al di là della sua validità, però, mi è sembrata una tesi molto suggestiva, e anche sorprendente rispetto all'idea che normalmente ci si fa del pensiero di Hegel:  se fosse vero, il riso sarebbe importante quanto la filosofia, se non di più: dopo che un'epoca si è compiuta, ha preso coscienza di se stessa, è stata spiegata e compagnia bella, il riso sarebbe qualcosa che fa piazza pulita perché si possa ricominciare da capo.
Tutta contenta, mi sono messa al computer e ho pazientemente tentato di rintracciare il brano, cercando la giusta combinazione delle parole chiave. Niente. Internet, che dà un riscontro e una legittimazione anche a quello che non esiste, non accoglie l'idea che Hegel potesse dare importanza al riso. In qualunque modo io selezioni e combini le parole Hegel comicità fine epoca Rossini Aristofane, non trovo quello che cerco.
Pare anzi che le opinioni di Hegel sul riso non si discostino troppo da quello che, prima di ricevere l'illuminante quanto vaga indicazione, mi sarei aspettata da una meretrice della filosofia come lui: la comicità è qualcosa di frivolo, inessenziale, nonché disprezzabile perché si prende gioco di ciò che è buono e nobile (il succo è questo). Come una visione del genere possa conciliarsi con il riso che chiude un'epoca, va oltre le mie capacità di comprensione.
Per cui le possibilità sono due: o la persona con cui ho parlato ha sbagliato filosofo; oppure le reali opinioni di Hegel sulla comicità sono un segreto non divulgabile e gelosamente custodito, e il delatore che me le ha svelate sarà indotto a butarsi giù da una torre.
In attesa di trovare la risposta, mi chiedo se questo sia il primo caso in cui le infinite voci variamente attendibili che popolano la rete si trovano concordi nello smentire un'informazione proveniente dall'esterno (quando di solito accade il contrario), oppure l'ennesima dimostrazione di come a quelle infinite voci sfugga sempre l'essenziale.
Certo è che per arrivare all'informazione che mi interessa questa volta mi devo rivolgere ad altri mezzi.

lunedì 26 marzo 2012

Enoikiazetai

Sì, è un momento strano per visitare la Grecia, anche in una gita scolastica di quattro classi stipate in pullman e prontamente dirottate dalle guide verso luoghi commerciali e rassicuranti (?). E' quasi impossibile non guardarsi intorno con un occhio sospettoso, alla ricerca di segni di disagio; e anche a non volerlo fare, i segni saltano agli occhi da soli.
Atene è aggrappata al turismo. Quella parvenza appena accennata di serenità e di benessere è tutta per i turisti; anche in centro, sopra ai negozi della catene multinazionali, ci sono piani e piani di uffici stretti e fatiscenti, pieni di vecchi schedari. In questa gita ho imparato due nuove parole: enoikiazetai e poleitai. Affittasi e vendesi: non so più quante volte le ho viste stampate sugli striscioni che pendono dai palazzi.
Si abbandonano gli edifici, e anche gli animali: Atene è piena di cani randagi che si godono le carezze dei turisti.
E' strano guardare le linee pulite e leggere delle grandi opere realizzate negli ultimi anni e pensare che in qualche misura hanno contribuito alla crisi, e quella bellezza si paga con lo squallore di tutto quello che c'è intorno. Abbiamo visto il ponte di Patrasso, esile e solido nello slancio che congiunge senza fatica la due sponde, e poi per chilometri case costruite a caso, senza un disegno unitario, faticosamente accostate le une alle altre, a volte non finite, a volte in rovina. Il grande stadio panatenaico costruito per le Olimpiadi del 2004; il museo dell'Acropoli, così bello che viene voglia di girarlo in su e in giù e scoprirlo sempre diverso da ogni angolatura e da ogni piano, fin quasi a dimenticarsi dei reperti che ospita (sono i marmi che gli inglesi non vollero, relativamente poca cosa rispetto a quelli del British Museum). L'antico e il moderno si conciliano in modo splendido, uniti dall'armonia e da una razionalità interiore, non insistita o cervellotica. Ma dalle grandi vetrate, oltre alla luce che fa brillare i marmi, entrano anche i palazzi abbandonati, a due passi.
Intanto le rovine stanno lì, con l'erba che gli cresce in mezzo (la primavera è forse la stagione più bella per visitare la Grecia, con i colori vivaci dei fiori contro il bianco del marmo). Una volta erano i luoghi della vita di tutti i giorni, dove si passeggiava, si discuteva, si celebravano i riti. Ora sono solo testimonianze di un'altra storia, e stanno lì a farsi guardare. Chissà se un giorno anche le nostre strade, le nostre piazze e le nostre chiese saranno sassi variamente conservati da studiare e visitare, e le nostre tazze decorate prese con i punti della Coop staranno nelle teche dei musei, mentre tutto intorno una nuova civiltà soffrirà.

martedì 13 marzo 2012

Sono già novantanove

Come di tutti i riti scaramantici, iniziatori e goliardici, non si sa chi l'abbia inventato, né quando, né come gli sia venuta in mente una cosa del genere.
Se scrivete 100 giorni  su Google, il primo risultato è la pagina di Wikipedia sull'ultimo sobbalzo di vita del potere di Napoleone; ma per chi sta per fare la maturità i cento giorni sono quelli che mancano alla prima prova scritta. Cioè, che mancavano ieri, il 12 marzo.
Non tutti festeggiano la data, e non tutti nello stesso modo; informandomi sulle usanze di altre parti d'Italia ho sentito cose eccentriche (studenti che saltano addosso ai professori). Beh, la nostra è quella che mi piace di più. In Toscana gli studenti congestionano i treni e migrano in massa verso il mare, ufficialmente per compiere un rito piuttosto complicato: si scrive sulla sabbia il voto che si spera di prendere aumentato di dieci, e quando le onde lo cancellano ci si getta sopra il sale. Ufficiosamente, è un modo per godersi l'aria tiepida e la luce splendida del mare a marzo, quando il sole è ancora basso sull'orizzonte. Ci si prende un giorno di pausa per giocare a calcio e rotolarsi sulla sabbia prima di iniziare il periodo più duro, insieme alle persone con cui si sono condivisi quasi cinque anni e con cui si sta per condividere la prova più difficile. Sentirsi uniti e affezionati per un giorno, anche in classi lacerate da lotte fratricide.
Qualcuno sfida il clima e fa il bagno, qualcuno sfida gli dei e punta in alto al momento di scrivere il voto. I più però scelgono l'understatement, perché è meglio una piacevole sorpresa che una delusione.
La spiaggia sterminata, i gruppi contro il cielo e il mare dai confini indefiniti, la foschia della Versilia; schizzi, urla e panini con il salame.  Una passeggiata lungomare sulla sabbia ancora tiepida, l'allegria che si riposa e la malinconia che arriva; perché sempre si festeggia quello che sta per finire.

domenica 4 marzo 2012

Forme

Scrive Umberto Curi nella Lettura del Corriere della Sera di oggi:
E' possibile ancora oggi concepire il pensare nei termini in cui è definito da Kant e Heidegger, o l'irrompere di fenomeni del tutto nuovi impone una radicale riformulazione degli stessi strumenti logico-concettuali, mediante i quali si esprime il pensiero? Nel momento in cui tengono campo il digitale e il virtuale, la globalizzazione e il "tempo reale", quali ripercussioni essi possono avere nella ridefinizione dello statuto del pensare? E' compatibile la grammatica delle nuove tecnologie con la sintassi del pensiero tradizionale?
E più avanti:
L'universo dei social network e il linguaggio digitale -solo per citare due esempi tra i molti- non sono soltanto oggetti del pensare, ma interferiscono direttamente nel processo di costruzione del pensare, modificandone in maniera tendenzialmente molto incisiva la stessa logica di funzionamento.
L'articolo in realtà, dopo aver analizzato in dettaglio cosa si intenda per pensare nella tradizione filosofica, non si sofferma sui modi in cui questo concetto sta cambiando. Animata da propositi suicidi, ho deciso di provarci io. Vediamo.
Il modo consapevole e responsabile di porci davanti alla rete è, per ora, un tentativo di applicare le nostre antiche e tradizionali capacità critiche per domare un mondo basato su criteri del tutto diversi: quindi selezionare, valutare, confrontare, arrivare a una sintesi.
Non c'è bisogno di dare un ordine e una gerarchia al caos, ma di convertire una gerarchia, diciamo, debole (informazioni ordinate in base al numero di visualizzazioni) in una forte (informazioni ordinate in base alla completezza e all'attendibilità).
Di fronte all'accattivante semplicità di un mondo in cui basta un gesto della mano per fare qualunque cosa -controllare l'orario del treno è facile come mettere la propria faccia su una dichiarazione o iscriversi a un'associazione cedendo tutti i propri dati-, ci sforziamo di non dimenticare che ogni azione ha il suo peso e si porta dietro le sue responsabilità; verifichiamo, ci informiamo, studiamo le condizioni giuridiche.
Di fronte a un sistema in cui degli sconosciuti usurpano il nome di amici, cerchiamo di non dimenticare il valore delle reazioni faccia a faccia, e di non confonderle con i rapporti virtuali.
Qualunque persona dotata di buon senso e consapevolezza vi dirà che in cose come queste sta la differenza tra usare Internet ed esserne succubi. Ed è vero, almeno in questo momento. Ma col tempo, è probabile che le nostre stesse facoltà si trasformino, adeguandosi al mezzo (che alla fin fine, non dimentichaimolo, è pur sempre un'invenzione umana). In parte, è già successo.
Ad esempio, diminuiscono la pazienza capacità di concentrarsi. Ci è sempre più difficile rapportarci con un testo lungo e complesso -anche cartaceo: vorremmo capire subito, cogliere il nocciolo. Non conta più andare in profondità, ma sapersi rapportare con un gran numero di stimoli immediati, sia che agiscano in parallelo (cerco la definizione di una parola mentre chatto con un amico), sia che entrino in relazione tra di loro (è l'amico ad aver bisogno di quella definizione, per capire il senso di un articolo che sta leggendo).
Questo esempio è stupido perché in tal caso l'amico potrebbe cercarsi la definizione per conto proprio; ma tanto per far capire il senso.
Tutto ciò ha anche degli aspetti positivi: ci rende più reattivi, più pronti a distinguere il fondamentale dal superfluo; ma dall'altra parte ci rende impazienti, meno disponibili all'ascolto.
E ancora: la necessità di memorizzare viene meno, perché tutto è disponibile in ogni momento (vedi, tanto per fare un esempio terra terra, la frustrante funzione di Facebook che segnala i compleanni della gente, cosicché non sai mai chi se ne è ricordato per davvero e chi te li fa perché ha visto l'avviso e scrivere "auguri" sulla bacheca non costa niente).
Insomma, si va in questa direzione, e si si dovesse constatare che le nuove forme mentali funzionano (cioè che ci permettono di condurre la nostra vita in modo soddisfacente, a livello sia individuale che sovraindividuale), le nostre vecchie facoltà critiche, in assenza di una materia a loro adatta, sarebbero destinate ad atrofizzarsi -che ciò sia giusto o no. Per quanto mi riguarda, mi sembra difficile che possa funzionare una società in cui l'attendibilità di un dato è misurata dal suo grado di popolarità, e in cui nessuno ha voglia di leggere un testo più lungo di cinque righe. Ma insomma, staremo a vedere. Alla fin fine, stiamo parlando di un mezzo che un giorno o l'altro potrebbe anche esplodere e farci perdere tutto ciò che gli abbiamo fiduciosamente affidato, costringendoci a ricominciare da capo.

P.S. Mi scuso se questo post è scritto in maniera oscura e cervellotica. L'argomento è complesso, e non è facile trovare la forma adatta a contenerlo. Ecco: anche qui, di nuovo, è tutta una questione di forme. D'altra parte, questa è forse la prima epoca in cui le forme sono più dinamiche dei contenuti. Guardandoci indietro, incontriamo forme fisse, rigide e pesanti che che rimanevano com'erano fino a quando i contenuti nuovi e sempre più dirompenti non le costringevano con la forza a cambiare. Oggi invece, quanto a contenuti continuiamo a nutrirci dei resti del secolo scorso; mentre le forme, come impazzite, esaltate da questa improvvisa leggerezza, cambiano in continuazione.

P.P.S. Se pensate che stia mischiando Marx con Kant in maniera invereconda, e che mi sia avventurata in terreni troppo insidiosi per una mente giovane e inesperta come la mia, avete ragione. Ma per come stanno le cose, chi è che arriva a leggere questo post fino in fondo? Siamo seri.

mercoledì 22 febbraio 2012

Studentesse di liceo classico in pizzicheria

1690: Locke, prefazione al Saggio sull'intelletto umano:
« ...essendosi cinque o sei amici miei riuniti nella mia stanza a discutere di argomenti molto diversi dal presente soggetto, ben presto ci trovammo in un vicolo cieco...e dopo aver fatto alquanti sforzi senza con ciò progredire verso la soluzione...a me venne il sospetto che avessimo adottato un procedimento errato; e che prima di applicarci a ricerche di quel genere, fosse necessario esaminare le nostre facoltà e vedere con quali oggetti il nostro intelletto fosse atto a trattare e con quali invece non lo fosse...»
2012: in pizzicheria.
L: Qui però i dolci non ci sono.
I: Come no? ci sono i biscotti, lo yogurt...
L: Che c'entra? Quelli non sono dolci.
I: E allora che sono?
L: Sono cose che si vendono nei negozi, non sono mica dolci!
I: Ma allora per te cos'è un dolce?
L: Un dolce è quello che ti servono al ristorante.
I: Quindi per te uno yogurt è un dolce solo se te lo servono al ristorante?
L: Ma al ristorante non ti servono lo yogurt!
B: Appunto, non è che ti portano lo yogurt nel vasetto.
I: Ma basta toglierlo dal vasetto e metterlo in una ciotola.
L: Hai presente la carta dei dessert? Un dolce per me è quello.
I: Ma se nella carta dei dessert ci fosse lo yogurt io lo prenderei. Scusate, un dolce è una cosa che ha un sapore dolce.
B: Ma lo yogurt è acidulo.
I: E se fosse yogurt alla fragola?
B: E cosa vorresti dire? Che allora tutti i frutti sono dolci?
I: Una fragola non è dolce?
B: Certo, ma se è una fragola da sola non è un dolce.
I: E se prendi una fragola e ci metti sopra il miele diventa un dolce?
B: Per me sì.
I: E lo yogurt con le praline di cioccolato?
L: Non basta avere un sapore dolce per essere un dolce! Un dolce è un cibo elaborato preparato da uno chef. Una cosa dolce che si compra in pizzicheria non è un dolce.
I: Ma no! Io se dopo pranzo ho voglia di mangiare uno yogurt dico: ora mangio un dolce.
L: Ma è un problema tuo!
B: Insomma, siamo in un Paese libero e abbiamo il diritto di chiamare lo yogurt come ci pare.
I: Ma se compri il tiramisù della Coop e lo metti in un piatto? Come la metti, eh?

domenica 12 febbraio 2012

Poeti laureati e poeti ragionieri

Otto e cinque, silenzio, sonno, odore di caffè. Risuona un commento sulla formazione di Montale, intriso di affettuoso paternalismo:
"Avete letto le pagine per oggi? Mah. Aveva fatto ragioneria. Poi studiava canto... Secondo me era un cucciolo. Magari era castrato."
Sorvoliamo sull'affettuoso paternalismo (non era lo studentello che parlava del premio Nobel, era il classicista che parlava del ragioniere). Ora, se fossi una di quelle menti perverse che progettano le domande di logica dei test psicoattitudinali, prenderei questa frase e sotto ci scriverei:

La frase ci informa che:
A. Chi ha studiato ragioneria non può diventare poeta.
B. Chi studia canto suscita tenerezza.
C. Se un poeta sa anche cantare bene è perché si è fatto castrare.
D. Un ragioniere per poter studiare canto deve suscitare tenerezza.
E. Essere ragioniere, studiare canto e scrivere poesie rivelano candore e semplicità d'animo.
F. Un ragioniere può diventare poeta solo se si fa castrare.

P.S. Magari la prossima volta che parlo di Montale cerco di parlare di Montale, eh?

sabato 4 febbraio 2012

E tesina sia

Saranno i dieci minuti più intensamente preparati della nostra vita. La sproporzione tra il reale peso della tesina nell'esame di maturità e il lavoro di preparazione che in molti casi c'è dietro è lampante, e forse vale la pena di rifletterci un po' sopra.
Immagino che, nelle intenzioni dei suoi creatori, la tesina dovesse sostanzialmente aiutare lo studente a sciogliersi e rompere il ghiaccio, iniziando la prova orale con un argomento ben padroneggiato: un punto fermo nel caos di giorni in cui potrebbero chiederti di tutto (anche come si chiama la prima strofa della Sera fiesolana di D'Annunzio). Insomma, una caritatevole concessione agli studenti divorati dall'ansia.
Già; peccato che per molti di noi quei dieci minuti siano diventati tutt'altro: l'occasione per liberarci da uno studio nozionistico, o per dimostrare che abbiamo capacità critiche, o per dare dignità a una nostra passione snobbata dalla cultura ufficiale, o per riscattarci da cinque anni di anonimato con un pirotecnico figurone finale. Ora, capirete che per tutto ciò dieci minuti sono maledettamente pochi. Mi piacerebbe proprio incontrare lo studente che in questo ristretto tempo è riuscito a parlare di Galilei, la quantistica, la probabilità, Heisenberg, Orwell, Seurat, Marx, Nietzsche, Pirandello e Freud, magicamente riuniti sotto l'affascinante titolo Il ruolo di Cosmo e di caos nella natura umana (in media, un minuto per ogni argomento, senza contare i confronti e l'interpetazione complessiva). Questo è un lavoro trovato su Internet, ma l'ho constatato anche nella mia esperienza personale: la parola tesina può far nascere preoccupanti tendenze all'enciclopedismo. All'improvviso tutti vogliono sviscerare i più profondi misteri dell'esistenza. E' inevitabile che progetti così ambiziosi si esuariscano in una trattazione superficiale.
Secondo problema: i collegamenti improbabili. Per quel che mi riguarda, non ci cascherò un'altra volta. All'esame di terza media portai Papà Goriot, e feci la ricerca di scienze sul colpo apoplettico perché di tale accidente moriva il protagonista (mi ricordo ancora che provavano a curarlo con un senapismo, cioè un impacco di senape). Qui la colpa non è degli studenti: secondo alcuni professori (non i miei, per fortuna) la tesina deve toccare il maggior numero possibie di materie; e siccome sono davvero pochi i temi che permettono di farlo senza cadere nel ridicolo, le tesine interdisciplinari finiscono per essere sempre le stesseScrivendo tesina su Google, uno dei primi suggerimenti è tesina follia. A meno che non  vi spremiate seriamente le meningi, parlerete ai commissari di qualcosa che hanno ascoltato in tutte le salse almeno quindici volte. E meno male che doveva servire a renderli più bendisposti. 
Terzo problema: non di tutto si può parlare. Il richiamo al programma è essenziale. Se pensate che sia finalmente arrivato il momento per riconoscere a Gossip girl lo spessore culturale che secondo voi si merita, forse vi conviene aprire un blog (in rete sì, si può parlare di tutto). Ma potreste avere problemi anche se siete cultori di un geniale scrittore di nicchia:
"Vedi, W. è una scelta molto interessante, ma il problema è che il professore di italiano medio non l'ha mai sentito nominare."
"Quindi devo pensare a qualcos'altro?"
"Ma no, c'è un intellettuale italiano che ha molte cose in comune con lui, M. Potresti sceglierlo come argomento principale e partendo da lì fare un collegamento con W."
"E cos'hanno in comune?"
"Beh, tutti e due si sono suicidati."
Morale: potreste ritrovarvi a lavorare su un argomento di cui vi importa meno che delle cispe di Orazio. Già, per una volta che potevate approfondire qualcosa di interessante.
Per quanto mi riguarda, sono indecisa tra due titoli uno più irrealizzabile dell'altro, per cui dovrei stare zitta. Forse alla fine opterò per una Fenomenologia della tesina; chissà se verrebbe apprezzata.

venerdì 27 gennaio 2012

Memoria e polemica

E' venuta una signora ebrea a parlare all'assemblea della mia scuola. Deportata da bambina, del suo dramma ci ha dato una versione quasi fiabesca, soffermandosi sui deboli sprazzi di luce che le permettevano di non dimenticare cosa fosse la vita: i giochi nel giardino della casa dove la famiglia si era nascosta (prima abitavamo in un condominio, per noi bambini era una festa), il compleanno del cugino festeggiato sul treno (la mamma aveva tenuto da parte le uova e lo zucchero, ci fece uno zabaione) il "privilegio" di dormire con la schiena appoggiata al muro, la gioia, dopo la liberazione di sentire un lenzuolo pulito sotto i piedi, nel letto:
Sono piaceri che per provarli bisogna essere deportati.
Era una donna che portava la sua esperienza, senza nessuna pretesa di giudicare, né tantomeno di parlare per tutti. Come d'uso, dopo il racconto è venuto il momento delle domande. E' salito sul palco un ragazzo e ha chiesto alla signora la sua opinione sul conflitto israeliano-palestinese.
E' vero che ha detto più volte: Non vorrei che questa sembrasse un'accusa nei suoi confronti. Non ho ragione per non credergli. Il punto è un altro. Il punto è che di fronte a una testimonianza personale, a un richiamo a valori condivisi, si sente il bisogno di inquadrare tutto questo in un'ideologia o in un'altra. La prima persona a far risuonare la sua domanda nel silenzio intimidito della platea non vuole capire meglio quello che ha appena ascoltato; si preoccupa solo di chiarire un dubbio urgente: lei è con noi o contro di noi?
Anche a costo di allontanarsi da ciò di cui l'altra ha parlato per tutto il tempo. La signora era sempre vissuta in Italia, non era una storica né una politologa; certamente aveva una sua opinione al riguardo, ma era venuta a parlare di altro, di qualcosa che aveva vissuto sulla sua pelle.
In platea non c'erano neonazisti (o se c'erano non si sarebbero azzardati a parlare); per cui fare polemica sulla Shoah sarebbe stato impossibile. E allora qualcuno ha pensato bene di spostare la polemica sull'argomento più vicino. Che lo volesse o no il risultato è stato questo, perché il suo intervento ha richiamato sul palco una ragazza che la pensava diversamente da lui.
Ma perchè, per una volta che possiamo confrontarci su valori comuni, e approfondirli, e cercare di andare al di là delle parole, c'è chi sente il bisogno di stabilire confini e di buttare ogni cosa da una parte o dall'altra? Non dico che il problema sollevato dal ragazzo non sia urgente, né che sia privo di legami con la Shoah. Ma, come tutti i problemi attuali, è (giustamente) terreno di scontro. E forse prima di cominciare a scontrarci dovremmo provare a capire cosa condividiamo, da quali basi partiamo; e cercare di non mischiare questi due momenti, non aver fretta di cominciare a urlare. Perché per quello c'è sempre tempo; mentre per ascoltare e raccogliere la memoria di persone ormai ottantenni, ce n'è sempre meno.

lunedì 23 gennaio 2012

Veemente dio per automobilisti frustrati

Veemente dio d’una razza d’acciaio,
Automobile ebbra di spazio,
che scalpiti e fremi d’angoscia
rodendo il morso con striduli denti…
Formidabile mostro giapponese,
dagli occhi di fucina,
nutrito di fiamma
e d’oli minerali,
avido d’orizzonti, di prede siderali…
Io scateno il tuo cuore che tonfa diabolicamente,
scateno i tuoi giganteschi pneumatici,
per la danza che tu sai danzare
via per le bianche strade di tutto il mondo!…
Sappiate che quest'uomo non aveva capito un accidente delle automobili. A dire il vero non aveva capito un accidente della vita in generale (o più probabilmente si rifiutava di farlo), ma questo è un altro discorso. Non so se Marinetti abbia mai sostenuto un esame di guida (chissà come funzionavano le cose all'epoca). Il mio esaminatore, solo per aver scritto una poesia del genere, lo avrebbe bocciato senza neanche farlo salire in macchina. Chiaramente a quel punto Marinetti lo avrebbe accusato di essere un flaccido e mediocre piccoloborghese moralista, pacifista, femminista e attaccato alla sintassi latina; ma fatto sta che sarebbe stato bocciato.
Dopo quattro mesi di scuola guida, mi sembra comico che qualcuno possa definire l'automobile ebbra di spazio e avida di orizzonti. Io la associo alla frizione da lasciare al momento giusto, alle frecce, all'obbligo di dare precedenza, alla sacralità dei pedoni sulle strisce, alle linee continue invalicabili, al calcolo dei centimetri per entrare nei parcheggi. A una serie di regole che ho dovuto imparare per la sicurezza mia e altrui. Inoltre, finora non ho amato per niente l'automobile. Ho passato questi mesi a sperare che inventassero il teletrasporto. Per me la macchina è un dio solo nel senso che è in gran parte inconoscibile. Per il resto, la vedo come un affare noioso cui mi tocca sottomettermi per muovermi dal mio eremo tra i boschi senza dipendere da qualcun altro.
Insomma, lo so che siamo davanti un iconoclasta di inizio Novecento comprensibilmente esaltato di fronte alla novità. Ma neanche contestualizzando riesco a non ridere (mi faceva ridere anche prima di iniziare a guidare, in realtà; ma ora molto di più).
A quanto pare, però, c'è qualcuno che la prende molto sul serio. Ora che conosci tutte le regole, dimenticale. Osare diventa la regola. Ecco chi è il padre nobile (?) degli spot per automobilisti frustrati.
Comunque, alla fine siamo arrivati in fondo. L'esaminatore non era molto convinto ma me l'ha data, l'importante è questo. Non ho mai amato così tanto la mia orribile fototessera. E' mia, e nessuno me la toglierà -finché non metto sotto qualcuno, almeno.

martedì 17 gennaio 2012

Complicarsi la vita

Chi tra voi persegue insani propositi di autopubblicazione sarà contento di sapere che caricare un file pdf su una pagina web non è difficile come credevo. A dire il vero, non è nemmeno così facile da poterci arrivare da soli, esplorando a casaccio le potenzialità del proprio computer (no, aprire il file con Internet Explorer e copiare l'indirizzo non era la strada giusta). Io qualche settimana fa sarei stata felicissima di trovare su Internet una spiegazione comprensibile anche ai poveri idioti (ma forse digitavo le parole chiave sbagliate), per cui ora che possiedo la sapienza mi sembra giusto diffonderla. Basta rivolgersi a un magico sito di hosting (parola sconosciuta fino a una settimana fa) chiamato http://www.docstoc.com/ Cliccate su upload in alto, create un account, e seguendo le istruzioni caricate il file; ovvero mettete il vostro lavoro nelle mani di docstoc che benevolmente vi fornisce un link da copiare sulla vostra pagina web. Fatto.
Tutto bene? Tutto bene, ma rimane un dubbio: perché per pubblicare qualcosa sulla piattaforma Blogger mi devo rivolgere a un terzo, perdere tempo per capire come si fa, creare un nuovo account, leggere un'altra informativa sulla privacy e disperdere ulteriormente i miei dati personali? Se Blogger permette di caricare foto, che problema ci sarebbe a caricare documenti? Perché una complicazione così inutile in un mondo che ti semplifica la vita anche quando non ce ne sarebbe bisogno?
Bene, non credo che Blogger segua i consigli dei suoi utenti. Spero almeno che non li censuri per diffamazione (come osi sputare nel piatto in cui mangi?). Mi sembra più probabile che i gestori non si diano pena di leggere i milioni di blog di cui permettono l'esistenza (o forse sì, altrimenti come farebbero ad accorgersene quando qualcuno inneggia all'incesto o alla zoofilia?). Altri misteri. Sospetto vagamente che non sia una mancanza di zelo, ma siano in gioco interessi economici.
Ancora, se qualcuno sa qualcosa il suo intervento illuminante sarà gradito.

martedì 10 gennaio 2012

Come uccidere Kant e vivere felici

Avevo detto che non l'avrei postata; invece alla fine ho deciso di intasare l'etere con i rigurgiti della mia mente; per cui è necessaria qualche spiegazione.
Primo: i miei buoni propositi di chiudere, con il 2011, i miei conti con Kant sono miseramente naufragati quattro ore dopo l'inizio dell'anno nuovo, quando, distesa nel sacco a pelo, ho raccontato la Critica della ragion pura e la Critica del Giudizio a una ragazza che vedevo per la seconda volta in vita mia. Pubblicando la commedia, quindi, spero che questa sia la volta buona.
Secondo: ho imparato a caricare i documenti, e questa scoperta mi esalta troppo per non metterla a frutto (la persona che me l'ha insegnato forse ora se ne pentirà amaramente, ma pazienza).
Bene, ora dovrei scrivere qualcosa per convincere i quattro o cinque frequentatori di questo blog, che giustamente hanno di meglio da fare, a leggere una commedia di trentacinque pagine sul filosofo di Konigsberg. Se dico che parla di quattro amici che per non studiare filosofia decidono di andare indietro nel tempo e uccidere Kant, avvicino alla lettura chi lo odia ma mi attiro il disprezzo di chi lo ama. Se dico che si finisce inevitabilmente per parlare di filosofia, e che Kant non ne esce per niente come una persona detestabile, ottengo l'effetto opposto.
Come si capirà, ho concepito questa commedia in un momento di odio viscerale verso Kant, e l'ho sviluppata mentre la mia opinione si trasformava pian piano, fino ad ammettere che, per quanto su molti punti non mi trovi d'accordo con lui, la sua filosofia mi ha colpita in profondità (o almeno, quello che credo di aver capito della sua filosofia: chi si intende un minimo dell'argomento magari si accorgerà che io di Kant non ho capito un accidente, e allora perderò consensi anche da quella parte).
Insomma, qualunque cosa dica dissuado la gente dalla lettura; per cui sarà meglio chiudere il post, e quello che c'è da dire lo dirà la commedia (speriamo che il link si apra!).

Come uccidere Kant e vivere felici