domenica 20 maggio 2012

Andiamo Baccanti, andiamo

Sì, forse è il caso di parlare anche dei miei lividi. Che, rispetto a una settimana fa, sono raddoppiati. Devo ringraziare una ragazza esperta di acrobazie se al regista è venuta la sadica idea di farci cadere una per una giù dal palco; ma devo ringraziarla anche per averci insegnato a farlo senza ucciderci. A teatro capita anche questo.
Solo due settimane fa eravamo ventiquattro sconosciuti (ventiquattro, vorrei sottolineare), abituati a incrociarsi nei corridoi della scuola senza considerarsi troppo, alle prese con un testo molto bello ma difficile da recitare e uno spettacolo da montare in fretta e furia. Le Baccanti di Euripide si prestano a essere fraintese: troppo facile semplificare, appianare la tensione che percorre la tragedia e schierarsi dalla parte di Dioniso o da quella di Penteo. Fior di studiosi si sono scannati per capire da che parte stesse Euripide. Io credo che il poeta si limiti a constatare una realtà: Dioniso, e tutto ciò che gli è associato, dona la gioia, la libertà, l'adesione vitale alla natura a chi lo accetta serenamente; con chi gli oppone un rifiuto frontale, invece, si rivela perverso e distruttivo. A chi lo considera contro natura fa fare cose contro natura, fino ad arrivare al dramma più grande, quello della madre che uccide il figlio senza riconoscerlo.
Non è facile confrontarsi con questa ambivalenza per ventiquattro ragazzi, molti dei quali non hanno recitato nemmeno alla veglia dell'avvento al catechismo. Ognuno con le sue esigenze, i suoi interessi, la sua vita di tutti i giorni, lo studio, le ripetizioni: difficile pensare alle donne invasate sul monte Citerone, sentirsele dentro, quando hai due orette a settimana per farlo. Aggiungete un regista un pochino narcisista e vagamente autoritario; ma anche, per fortuna, due aiuto registe sante che a un certo punto prendono i mano la situazione, ci costringono a chiederci perché siamo lì a dire frasi sui tirsi e le cerve nel bosco anziché a fare qualcos'altro. A capire cos'è il teatro per noi, chi è Penteo, chi è Dioniso, chi sono queste donne ora sagge ora invasate che interpretiamo.
Il miracolo è successo nell'ultima settimana, quando abbiamo provato in teatro tutti i giorni e montato diversamente alcune scene.  Ora dopo ora, lontani dalla nostra vita di tutti i giorni, siamo entrati dentro alle battute, le abbiamo urlate alla platea vuota, abbiamo sentito la tensione correre dentro di noi mentre strisciavamo per terra o ci appiattivamo contro il sottopalco per non farci vedere da Penteo. Saimo diventate un corpo unico, variegato e magmatico, una presenza sempre incombente sulla scena: e ci è venuto naturale, dopo tutte le ore passate insieme, a conoscersi, a preoccuparsi e a ridere per le stesse cose.
Ho riscoperto una cosa che avevo dimenticato: il teatro non è finzione. E' un'occasione per capire quante persone diverse possiamo essere, se solo riusciamo a scovarle dentro di noi, prenderle per mano e portarle allo scoperto. Io mi distraggo spesso; ho sempre la mente che vaga nel passato o nel futuro. Il teatro invece è qui e ora: uno strordinario esercizio di presenza e di concentrazione.
E così uno spettacolo in cui nessuno credeva è diventato uno dei più apprezzati degli ultimi anni; e quando tutto è finito è rimasto un grande vuoto in tutti noi, una difficoltà a rientrare in quella vita quotidiana che solo due settimane fa ci teneva lontani dal teatro. Ci resta la complicità che ci unisce e ci distingue dagli altri, quando sentendo qualcuno dire andiamo!  ci viene da aggiungere: e portiamo il dio per i sentieri di Tebe!, e a questa è Sparta!  vorremmo ribattere: questa è Tebe! Ingrata! Ingrata!

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