mercoledì 4 luglio 2012

Ne pizzicau lu core mamma mia ci dulore

Dopo quarantacinque giorni di silenzio, dovrei forse parlare di Heidegger e Hannah Arendt, del letamaio nella versione di greco, delle regole d'impaginazione della tesina, della commissione che distribuiva confetti alla fine dell'orale o delle cose che affliggono me e le persone intorno a me (perché la maturità non è l'inizio, ma la fine della libertà -e nessuno ce l'aveva detto).
Invece parliamo della pizzica. Uno dei vantaggi dell'avere un'amica pugliese è poterla accompagnare a un concerto di musica salentina in trasferta a Firenze (La notte della Taranta, diretta da Ludovico Einaudi); perché è certo che, se non le avessimo regalato il biglietto per il compleanno, io da sola non avrei mai avuto il coraggio di andarci.
Ora, devo dire che il nuovo teatro dell'opera di Firenze è brutto. Un'enorme astronave bianca e grigia adagiata in fondo a un viale, lunghe fughe prospettiche spoglie e un po' inquietanti. La cavea  alla'aperto, dove si è svolto il concerto, è costruita sul tetto digradante  del teatro. Una bella idea, se non non fosse che quando il pubblico si è alzato in piedi a ballare il pavimento ha cominciato a oscillare. Dettagli.
La musica del Salento è coinvolgente e ossessiva, un patrimonio antichissimo reso vivo dalle reinterpretazioni moderne. Nell'orchestra c'erano anche strumenti africani e australiani (nonché -questo non me l'aspettavo proprio- una cornamusa pugliese). Dietro a questi ritmi ora malinconici ora indiavolati c'è una cultura pagana che il cristianesimo ha cercato inutilmente di reprimere; resti, forse, dei rituali dionisiaci, ma anche il dramma delle donne "tarantate" (possedute dal demonio per la società; in realtà il "morso della tarantola" era lo sfogo isterico delle violenze domestiche). La cultura popolare ha esorcizzato questo lato oscuro traendone una danza piena di vitalità, dove tutti ballano con tutti in un momento di grande libertà.
Tra le voci dei cantanti, ce n'è una indimenticabile: Enza Pagliara, non a caso la cantante preferita della mia amica. Una donna alta, con i capelli neri, il viso scavato, non bella ma come animata da una nobiltà selvaggia. Urla senza stonare con una voce tagliente, a tratti dolorosa, ma sempre piena di energia. Mentre canta fa ondeggiare le braccia con movimenti lenti, come cercando continuamente un nuovo equilibrio,  o attirando il pubblico a sé.
Ludovico Einaudi, piemontese con la paglietta prestato alla musica del Sud, suona il piano, muove le braccia, incita il pubblico. Guardandolo vine da pensare: ecco un uomo che si diverte a fare il suo lavoro. E vorrei anche vedere.

domenica 20 maggio 2012

Andiamo Baccanti, andiamo

Sì, forse è il caso di parlare anche dei miei lividi. Che, rispetto a una settimana fa, sono raddoppiati. Devo ringraziare una ragazza esperta di acrobazie se al regista è venuta la sadica idea di farci cadere una per una giù dal palco; ma devo ringraziarla anche per averci insegnato a farlo senza ucciderci. A teatro capita anche questo.
Solo due settimane fa eravamo ventiquattro sconosciuti (ventiquattro, vorrei sottolineare), abituati a incrociarsi nei corridoi della scuola senza considerarsi troppo, alle prese con un testo molto bello ma difficile da recitare e uno spettacolo da montare in fretta e furia. Le Baccanti di Euripide si prestano a essere fraintese: troppo facile semplificare, appianare la tensione che percorre la tragedia e schierarsi dalla parte di Dioniso o da quella di Penteo. Fior di studiosi si sono scannati per capire da che parte stesse Euripide. Io credo che il poeta si limiti a constatare una realtà: Dioniso, e tutto ciò che gli è associato, dona la gioia, la libertà, l'adesione vitale alla natura a chi lo accetta serenamente; con chi gli oppone un rifiuto frontale, invece, si rivela perverso e distruttivo. A chi lo considera contro natura fa fare cose contro natura, fino ad arrivare al dramma più grande, quello della madre che uccide il figlio senza riconoscerlo.
Non è facile confrontarsi con questa ambivalenza per ventiquattro ragazzi, molti dei quali non hanno recitato nemmeno alla veglia dell'avvento al catechismo. Ognuno con le sue esigenze, i suoi interessi, la sua vita di tutti i giorni, lo studio, le ripetizioni: difficile pensare alle donne invasate sul monte Citerone, sentirsele dentro, quando hai due orette a settimana per farlo. Aggiungete un regista un pochino narcisista e vagamente autoritario; ma anche, per fortuna, due aiuto registe sante che a un certo punto prendono i mano la situazione, ci costringono a chiederci perché siamo lì a dire frasi sui tirsi e le cerve nel bosco anziché a fare qualcos'altro. A capire cos'è il teatro per noi, chi è Penteo, chi è Dioniso, chi sono queste donne ora sagge ora invasate che interpretiamo.
Il miracolo è successo nell'ultima settimana, quando abbiamo provato in teatro tutti i giorni e montato diversamente alcune scene.  Ora dopo ora, lontani dalla nostra vita di tutti i giorni, siamo entrati dentro alle battute, le abbiamo urlate alla platea vuota, abbiamo sentito la tensione correre dentro di noi mentre strisciavamo per terra o ci appiattivamo contro il sottopalco per non farci vedere da Penteo. Saimo diventate un corpo unico, variegato e magmatico, una presenza sempre incombente sulla scena: e ci è venuto naturale, dopo tutte le ore passate insieme, a conoscersi, a preoccuparsi e a ridere per le stesse cose.
Ho riscoperto una cosa che avevo dimenticato: il teatro non è finzione. E' un'occasione per capire quante persone diverse possiamo essere, se solo riusciamo a scovarle dentro di noi, prenderle per mano e portarle allo scoperto. Io mi distraggo spesso; ho sempre la mente che vaga nel passato o nel futuro. Il teatro invece è qui e ora: uno strordinario esercizio di presenza e di concentrazione.
E così uno spettacolo in cui nessuno credeva è diventato uno dei più apprezzati degli ultimi anni; e quando tutto è finito è rimasto un grande vuoto in tutti noi, una difficoltà a rientrare in quella vita quotidiana che solo due settimane fa ci teneva lontani dal teatro. Ci resta la complicità che ci unisce e ci distingue dagli altri, quando sentendo qualcuno dire andiamo!  ci viene da aggiungere: e portiamo il dio per i sentieri di Tebe!, e a questa è Sparta!  vorremmo ribattere: questa è Tebe! Ingrata! Ingrata!

venerdì 11 maggio 2012

Un passante chiede la strada

Lo so, è squallido scrivere un post ispirandosi a un altro post. Ma quando qualcosa ti regala cinque minuti di spensieratezza, è normale che venga voglia di cimentarsi.
Sì, va bene, si parla di nuovo di filosofi. Non so che farci, magari potrei scrivere dei lividi che mi sono procurata buttandomi giù dal palco durante le prove delle Baccanti per assecondare il sadismo del regista, ma non so quanto l'argomento sarebbe interessante. Mi auguro che stavolta, se non altro, i filosofi facciano ridere.

Hume cammina. Un passante gli chiede la strada per la biblioteca.
Hume: "Guardi, l'ultima volta che ci sono stato ho preso la prima a destra, ma non me la sentirei di darle informazioni per il futuro in base all'esperienza del passato."

Kant cammina. Un passante gli chiede la strada per la biblioteca.
Kant: "Deve prendere la prima a destra."
Passante: "Ma è sicuro? Perché Hume mi ha detto che..."
Kant: "Vuole che le spieghi come ho fatto a capirlo?"
Il passante prende la prima a destra.

Orazio cammina. Un passante si avvicina.
Orazio fugge urlando non isto vivimus illic quo tu reris modo!

Filippo Tommaso Marinetti cammina (vabbe', il mostro giapponese è dal meccanico). Un passante gli chiede la strada per la biblioteca.
Marinetti (con un ghigno sadico, brandendo ancora un tizzone acceso): "Quale biblioteca?"

Kierkegaard cammina. Un passante gli chiede la strada per la biblioteca.
Kierkegaard: "Non posso dirglielo io o la priverei della sua unicità di individuo! Deve scegliere lei e affrontare la possibilità del nulla in agguato dietro l'angolo!" Pausa. "Comunque se le interessa la seconda a sinistra porta alla chiesa."

Umberto Eco cammina. Un passante gli chiede la strada per la biblioteca.
Eco: "La prima a destra."
Passante: "Grazie."
Eco: "E' stato bello conoscerla."

Schopenhauer cammina. Un passante gli chiede la strada per il Comune.
Schopenhauer: "Scusi, perché non va in biblioteca anche lei?"
Passante: "Sa com'è, mi dovrei sposare."
Schopenhauer: "E' apparenza! Velo di Maya! Lei va in Comune a rendersi schiavo della volontà di vivere e generare nuovi esseri infelici! Segua con me la strada dell'asce..."
Passante: "Vabbe', vado a chiedelo a Hegel, eh?"

Hegel cammina. Un passante gli chiede la strada per il Comune.
Hegel: "Dunque, deve passare da casa sua, stare un po' con la sua famiglia, poi andare al lavoro, farsi qualche bella litigata, farsi arrestare, processare, capire quanto è conflittuale la società civile, e quando l'ha capito vedrà che arriva dritto diritto in Comune. Poi faccia un salto alla galleria d'arte, tanto per capire che l'arte è una cosa del passato, un salto in chiesa, tanto per rendersi conto che la religione è ancora legata alla rappresentazione, poi torni qui da me e non potrà non riconoscermi come la più alta manifestazione dello Spirito."
Il passante torna a cercare Schopenhauer. Ma ormai è morto.

Marx cammina. Un passante gli chiede la strada per il Comune.
Marx: "Se torna con una sessantina di proletari armati forse le rispondo."

Freud cammina. Un passante gli chiede la strada per il Comune.
Freud: "Se le dico Comune a cosa pensa?"
Passante: "Io le ho chiesto la strada."
Freud: "Noto in lei una tenace resistenza al metodo psicanalitico."

Comunque, tutti costoro hanno dato informazioni più utili di quelle che do io quando qualche malacapitato mi chiede la strada.

martedì 24 aprile 2012

Il folle (ovvero, una precisazione non richiesta)

Da un po' di tempo in questo blog si parla solo di filosofi. So che i suoi scarsi frequentatori bramano post ambientati in pizzicheria, e in questo modo sto rischiando di perdere pure loro. Ma ho bisogno di mettere qualcosa in chiaro sulla commedia. La situazione è già di per sé abbastanza strana, perchè lo scopo di questo post è rispondere a un'obiezione che nessuno mi ha fatto. Potrei dire che la sto prevenendo, ma anche questa definizione è fin troppo lusinghiera, perché pochissime persone hanno letto la commedia, e pochissime di queste stanno anche leggendo quanto scrivo ora; e anche costoro hanno di certo cose migliori da fare che muovermi obiezioni. Per cui questo post serve soprattutto a me, per affrontare un fatto inquietante che si è verificato.
Ora, verso la fine della commedia su Kant c'è un pazzo che parla in piedi sulla cattedra di un'aula universitaria. A un certo punto dice: Forse Dio esisteva ma è morto. Si dà il caso che anche un altro pazzo, molti anni dopo Hans e molti prima della commedia, abbia detto la stessa cosa.
Beh, non lo sapevo. Il folle della commedia non è il bisnonno di Nietzsche, ho letto il brano della Gaia scienza solo una settimana fa e mi è pure preso un colpo; il discorso di Hans, poi, verte su altro, e la frase doveva servire solo, come quelle che la precedono e che la seguono, a creare un'atmosfera straniata rispetto ai procedimenti logici ordinari. Lo sproloquio non è una rivelazione, e probabilmente non l'avrei nemmeno inserito se non avessi avuto bisogno di un espediente per convincere Kant a darsi una mossa.
Insomma, non volevo rompere le scatole con inquietudini moderne a un uomo che ha provato, quando ancora era possibile, a rifondare le basi di un sapere e di una morale stabili (questo lo fa Teresa, non io). Forse anziché scrivere questo post avrei fatto prima a eliminare la frase. Sarebbe stata un'occasione per togliere anche le battute che non fanno ridere. Ma non so come si fa (credo che dovrei rimuovere tutta la commedia, modificare il file sul mio computer e poi caricarlo di nuovo, e la cosa mi fa un po' fatica).
Bene, dichiarata la mia innocenza forse vale la pena di riflettere un po' su questo fatto. Infatti, anche se non pensavo a Nietzsche quando ho scritto quella scena, non me la sento nemmeno di dire che è stata solo una coincidenza. Nietzsche, nel bene e nel male, ci ha consegnato la realtà in cui viviamo, e non è necessario averlo letto per esserne influenzati. E' incredibile quanto abbia permeato non solo la filosofia, ma anche il senso comune (anche se forse sarebbe più giusto dire che sono state le trasformazioni sociali e culturali in atto a influenzare lui). Siamo una società fedele alla terra, anche se non abbiamo bisogno di dirlo con toni così enfatici e iconoclastici (d'altra parte non è rimasto più nulla da distruggere).
In realtà Nietzsche, tutto preso dalla sua foga di distruggere ogni cosa, si è reso lui stesso vulnerabile. Con le sue affermazioni a effetto, poco argomentate e per paradosso quasi dogmatiche, si è innalzato tanto da fermarsi appena un passo prima del ridicolo. E in effetti sarebbe davvero facile ridere di lui se avessimo un'alternativa al suo pensiero, se non sentissimo che in qualcosa ha ragione. Certo, in un secolo e mezzo la stessa mentalità comune che ha accolto Nietzsche l'ha anche corretto: morto Dio, gli uomini restano uomini. Tutti. Ed essere liberi non vuol dire che tutto è permesso. Ma di certo ci siamo abituati a vivere senza punti di riferimento assoluti (nel migliore dei casi) oppure abbiamo sostituito ad essi quelli legati alla nostra individualità. La fantomatica umanità liberata di Nietzsche forse non è peggiore di quelle che l'hanno preceduta (se si eccettuano le degenerazioni di cui il filosofo è stato responsabile fino a un certo punto); ma non è neanche migliore. Di certo ora come ora non potremmo proporre altro; ma sarebbe bello, un giorno, poter ridere anche di Nietzsche.

P.S. Comunque, per quanto riguarda la morte di Dio, un mio amico sostiene che Dio si è suicidato quando ha visto cos'aveva creato.

domenica 15 aprile 2012

Varchi e cose simili

Tempo fa mi ripromettevo di tornare a parlare di Montale entrando un po' di più nel merito. L'occasione è data da un compito di italiano che ho dovuto finire e consegnare in fretta e furia sotto gli occhi irremovibili  (vabbe', affascinanti e irremovibili) del mio professore che aveva fretta di andarsene. Fare in due ore un compito pensato per essere svolto in sei si porta dietro qualche inconveniente: ad esempio, l'ultima colonna è sempre una giungla di geroglifici che una volta decifrati si rivelano frasi sconnesse e idee non spiegate. E stavolta, la sensazione di non essere riuscita a dire tutto è più forte.
Per cui ricominciamo. Qui almeno non sono obbligata a individuare i versi sdruccioli.
La casa sul mare
ll viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l'anima che non sa più dare un grido.
Ora i minuti sono eguali e fissi
come i giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d'acqua che rimbomba.
Un altro, altr'acqua, a tratti un cigolio.
Il viaggio finisce a questa spiaggia
che tentano gli assidui e lenti flussi.
Nulla disvela se non pigri fumi
la marina che tramano di conche
I soffi leni: ed è raro che appaia
nella bonaccia muta
tra l'isole dell'aria migrabonde
la Corsica dorsuta o la Capraia.
Tu chiedi se così tutto vanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell'ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti che no, che ti s'appressa
l'ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s'infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi.
Vorrei prima di cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei sommossi campi
del mare spuma o ruga.
Ti dono anche l'avara mia speranza.
A' nuovi giorni, stanco, non so crescerla:
l'offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.

Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m'ode
salpa già forse per l'eterno.
Anche senza questo, amerei Montale per la sua capacità di esprimere la fatica e l'asprezza dell'esistenza, per la messa in discussione del ruolo della poesia al di là della retorica, per la ricerca problematica di valori autentici da contrapporre alla stupidità, all'ignoranza, al conformismo del momento storico (e non solo).
Ma quando si comincia a parlare di varchi, come in questa poesia -o nei Limoni, ad esempio- ho bisogno di fare un discorso un po' più lungo.
Nella poesia di Montale c'è un tentativo continuo di uscire dal movimento circolare e ripetitivo del tempo, che scandisce la vita umana, e accedere all'infinito -o all'assoluto, o a una dimensione metafisica, comunque si voglia chiamarla: insomma, di cogliere il senso complessivo e profondo dell'esistenza, che altrimenti si presenta come una catena meccanica e insensata di cause ed effetti. Ma il varco ogni volta si dilegua appena intuito (come nei Limoni) oppure appare fin da subito impenetrabile (come in Meriggiare pallido e assorto). Il viaggio dell'uomo finisce sulla spiaggia, nell'aria appesantita dai mulinelli di sabbia e dal vento. Lì vicino, la pompa idraulica ripete i suoi movimenti sempre uguali. Il mare è inaccessibile, l'orizzonte è coperto. Il vate che si fonde panicamente con la natura e ne espugna i segreti è un'illusione buona per i lettori  di d'Annunzio; Montale sa che neanche il poeta può sottrarsi all'immanenza e alla ciclicità opprimente del tempo. Può farlo, forse, la donna che è con lui. L'autore lascia aperta la possibilità che alcuni possano accedere a una dimensione superiore, ma sembra sperarlo più che crederlo; come se avesse bisogno di sapere che esiste, almeno in sé, un senso che vada al di là dell'aridità della nostra vita fisica.
Ecco, visto che ho scritto in sé quacuno avrà già capito dove voglio andare a parare. Non lo faccio apposta a infilare Kant ovunque, ma La casa sul mare somiglia in modo impressionante a un passo della Critica della ragion pura  che ho già citato in questo post. Kant, proprio nel momento in cui afferma che il mondo è sottoposto allo spazio, al tempo e al meccanicismo perchè questo è l'unico modo in cui le nostre facoltà riescono a inquadrarlo, lasciando intravedere l'esistenza di una cosa in sé che vada oltre, si affretta a chiudere questa possibilità, perché l'uomo non deve perdere tempo con ciò che non può conoscere. Finiti come siamo, non possiamo andare oltre il fenomeno; ma questo, per quanto riduttivo, è l'unica base solida su cui possiamo costruire la nostra conoscenza. Anche se l'uomo ha un insopprimibile bisogno di assoluto, a pretendere troppo ci si arena negli errori e nella confusione.
Questa conclusione può soddisfare un filosofo che si muove in una prospettiva più che altro scientifica, non un poeta della crisi. Montale sa che l'uomo è un anello della catena naturale sottoposto a una necessità cieca, o almeno questo è ciò che può sapere di sé: ma la cosa non è rassicurante, è frustrante. E' frustrante non poter scoprire l'anello che non tiene, non poter sovvertire ogni disegno. Forse tutto questo dipende anche dal momento storico: quando un movimento nasce dal nulla e in pochi anni si impone come regime senza incontrare ostacoli significativi, è difficile pensare di poter sovvertire i disegni della storia (quello che poteva essere evitato si verificò di fatto come se fosse una necessità ineluttabile); quando dall'alto si tende ad appiattire, a massificare e a sopprimere la libertà, è facile sentirsi imprigionati in una ciclicità senza scopo, e desiderare qualcosa che vada al di là. Montale ha troppa onestà inellettuale per rifugiarsi in una visione consolatoria, sa di non poter attraversare il varco, ma non accetta quest'idea con la stessa serenità di Kant.
Ora. Anche sulla serenità di Kant, in realtà, non metterei la mano sul fuoco: dopo il 1781, sistemati i conti con la scinza e non dovendo più preoccuparsi di distinguere cos'ha validità teoretica e cosa no,  ha passato la vita a cercare di rendere l'uomo, e il mondo che lo circonda, qualcosa di più che semplici ingranaggi.
Nella Critica della ragion pratica il modo per sottrarsi al fenomenico è l'azione morale: come corpo l'uomo è sottoposto alle leggi della natura, ma quando sceglie di agire moralmente è libero. Nella Critica del Giudizio Kant si sbilancia, e dice che nella bellezza siamo autorizzati a scorgere una finalità, e che nell'ordine della natura possiamo intuire un'intenzione, e forse anche pensare che qualcuno l'abbia creata per noi. Purché questo bisogno umano non pretenda di avere validità scientifica, e di elevarsi a certezza. (tutto questo non centra molto con Montale; ne ho parlato solo per dire che neanche Kant, alla fin fine, è riuscito ad accontentarsi del fenomenico).
Tra Kant e Montale ovviamente c'è Schopenhauer, è lui il primo a non accettare il fenomeno. Da Schopenhauer (e da Leopardi) Montale prende non solo questa storia dei varchi e dei veli squarciati, ma anche l'idea della vita come fatica e sofferenza. Tra i due sinceramente non so chi è più pessimista: uno riesce senza troppi problemi a lacerare il velo, ma quando arriva alla cosa in sé si accorge che è proprio quella il fondamento della sofferenza umana, che è la volontà di vivere a toglierci ogni libertà. Per Montale invece il dolore e l'insensatezza appartengono al fenomenico, nella metafisica c'è un senso e un sollievo. Peccato non poterci arrivare.
 (Mi scuso se questo post è particolarmente lungo)

venerdì 6 aprile 2012

Quasi mai, suvvia

Il riassunto della mia giornata dell'altro ieri può servire da esempio di come, nel 2012, la ricerca di un brano possa ancora rivelarsi relativamente avventurosa. E anche di come un lavoro del genere sia molto più appassionante, e dia alla fine molta più soddisfazione di quella che avrei potuto ricavare cercando le corrispondenze interne nell'Estetica di Hegel su Google libri (che non esiste).
Andiamo con ordine. La mia professoressa di filosofia mi porta gentilmente l'opuscolo di Bodei di cui mi hanno parlato. Mentre lei segna le assenze, scorro velocemente le pagine e trovo il brano incriminato. Alla fine della lezione glielo mostro e lei mi consiglia di cercare l'Estetica nella biblioteca della scuola. (avanza anche il sospetto che io abbia letto l'opuscolo anziché seguire la lezione, ma io ho preso appunti e posso dimostrarlo).
Ora, per entrare nella biblioteca è richiesta l'autorizzazione scritta di un insegnante. La ottengo e la mostro ai custodi. Entro nella saletta A e scopro che i testi di filosofia sono nella saletta B (sì, la mia scuola avrebbe anche una biblioteca degna di questo nome se non fosse stata trasformata in teatro nell'Ottocento -teatro a sua volta inaccessibile perché in restauro da una decina d'anni). Mi faccio aprire la saletta B. Guardo tra Gadamer e Heidegger e scopro che tra le opere di Hegel non c'è l'Estetica. Presa dallo sconforto, esco ma una mia previdente compagna di classe mi fa notare lo schedario. Sì, di solito le persone normali lo consultano prima di guardare tra gli scaffali e non dopo, ma io a quanto pare avevo troppa fiducia nella capacità enciclopediche e classificatorie della mia scuola per pensare che l'Estetica potesse trovarsi due scaffali sotto le altre opere di Hegel. Come in effetti è. Con rinnovata fiducia vado a cercare il volume 1199 e scopro che i titoli da 1189 a 1200 sono spariti. Ormai però ho capito come funzionano le cose: guardo nello scaffale sotto e trovo l'oggetto del mio desiderio, privo di qualsiasi legame numerico o alfabetico con i due libri ai suoi lati. Comincio a sfogliarlo stando attenta a non leccarmi le dita (a questo punto c'è da aspettarsi qualunque cosa) e trovo l'indice analitico. I miei pensieri ormai si sono fatti sconnessi, comincio a cercare corrispondenze per Rossini, Sterne, humour ma non mi passa proprio per la testa di cercare sotto umorismo. Per fortuna, due pagine dopo un inutile (per me) brano su Cervantes trovo il paragrafo che cercavo. E nemmeno compare un bibliotecario pazzo a mangiarsi il libro: gioia infinita!
Perciò la sua attività principale [dell'umorismo] consiste nel far in sé decomporre e dissolvere, ad opera della potenza di trovate soggettive, lampi di pensiero e sorprendenti modi di concepire, tutto ciò che pretende di farsi oggettivo e di acquistare una forma fissa della realtà o che sembra possederla nel mondo esterno.
Ora non è esattamente quello che mi aspettavo: a questo punto penso che il discorso sulla fine di un'epoca sia una rielaborazione di Bodei sulla base di osservazioni sparse qua e là (anche se in qualche modo si può considerere implicitamente contenuto anche in questo brano). Il concetto sta a monte, è più generale e a pensarci bene  è proprio quello che cercavo come fondamento della tesina: il riso non serve, come dice Bergson, alla società per correggere l'automatismo e la rigidità degli individui, ma agli individui per spintonarsi tra loro e soprattutto dare una spinta alla società nel suo complesso, quando questa si stabilizza, si adagia e si propone come un sistema di valori assoluti (non è un'idea molto originale, ma d'altra parte non sto scrivendo una tesi di laurea).
Ora, Hegel è naturalmente diffidente verso uno strumento del genere -di qui i giudizi negativi che avevo trovato in un primo momento. Dedica solo un paio di pagine a un problema potenzialmente così importante nel suo sistema: dissolvere tutto ciò che pretende di farsi oggettivo, mica noccioline (anche se l'Estetica è stata sistemata dagli allievi, e vai a sapere cos'hanno combinato); fa attenzione a distinguere un umorismo autentico da uno piatto e banale; parla di un girovagare del tutto ingenuo, lieve, inapparente, è molto prudente (non si sa mai che a qualcuno venga in mente di far decomporre anche il punto d'arrivo di tutte le triadi, che per pura coincidenza è la sua filosofia).  Tutto ciò che è razionale è reale, la critica seria puzza un sacco, figuriamoci quella che fa ridere. 
Già, ma Hegel è pur sempre il filosofo della dialettica e, per quanto tenti di limitarlo e ridimensionarlo dopo la forza dell'affermazione iniziale, non può non riconoscere l'importanza di un principio che sta alla base del movimento. E infatti parla dell'umorismo nel capitolo sulla dissoluzione dell'arte romantica. C'era pur bisogno di qualcosa che spiegasse come si passa dal culmine di una triade all'inizio di quella successiva. Insomma, tornando alla questione se si possa dar fiducia a Hegel: ha detto qualcosa di molto significativo e interessante, suo malgrado.                        

domenica 1 aprile 2012

Mai fidarsi di Hegel

Dare fiducia a Hegel e alla sua capacità di dire qualcosa di apprezzabile non si sta rivelando una buona idea. Chi nella storia ci ha provato è stato insultato a suon di vacche nere, quindi avrei dovuto saperlo; ma andiamo con ordine.
Ora, come argomento della mia tesina ho scelto il riso, inteso come strumento della libertà di pensiero e dell'onestà intellettuale contro i dogmi, i fanatismi e i fantasmi della nostra mente. Forse via via che la cosa prende forma ne parlerò più diffusamente; per ora mi interessa Hegel.
Di solito quando parlo di quest'idea alla gente ottengo battute infelici del tipo: "Ma fai la tesina su un cereale?" (almeno siamo in tema, se il titolo è già di per sé un motto di spirito). Invece l'ultima persona con cui mi sono confrontata mi ha risparmiato il facile umorismo e mi ha consigliato di prendere in considerezione anche Hegel. A sentire lui, per Hegel il riso conclude un'epoca: le commedie di Aristofane chiudono la Grecia classica, Sterne e Rossini chiudono gli ultimi strascichi dell'era feudale.
L'idea in realtà non è troppo convincente: mi sembra piuttosto che il riso accompagni un'epoca in tutte le sue fasi, provvedendo costantemente a giudicarla e correggerla, come d'altra parte dovrebbe fare la stessa filosofia (ma questo Hegel, si sa, non poteva accettarlo). Al di là della sua validità, però, mi è sembrata una tesi molto suggestiva, e anche sorprendente rispetto all'idea che normalmente ci si fa del pensiero di Hegel:  se fosse vero, il riso sarebbe importante quanto la filosofia, se non di più: dopo che un'epoca si è compiuta, ha preso coscienza di se stessa, è stata spiegata e compagnia bella, il riso sarebbe qualcosa che fa piazza pulita perché si possa ricominciare da capo.
Tutta contenta, mi sono messa al computer e ho pazientemente tentato di rintracciare il brano, cercando la giusta combinazione delle parole chiave. Niente. Internet, che dà un riscontro e una legittimazione anche a quello che non esiste, non accoglie l'idea che Hegel potesse dare importanza al riso. In qualunque modo io selezioni e combini le parole Hegel comicità fine epoca Rossini Aristofane, non trovo quello che cerco.
Pare anzi che le opinioni di Hegel sul riso non si discostino troppo da quello che, prima di ricevere l'illuminante quanto vaga indicazione, mi sarei aspettata da una meretrice della filosofia come lui: la comicità è qualcosa di frivolo, inessenziale, nonché disprezzabile perché si prende gioco di ciò che è buono e nobile (il succo è questo). Come una visione del genere possa conciliarsi con il riso che chiude un'epoca, va oltre le mie capacità di comprensione.
Per cui le possibilità sono due: o la persona con cui ho parlato ha sbagliato filosofo; oppure le reali opinioni di Hegel sulla comicità sono un segreto non divulgabile e gelosamente custodito, e il delatore che me le ha svelate sarà indotto a butarsi giù da una torre.
In attesa di trovare la risposta, mi chiedo se questo sia il primo caso in cui le infinite voci variamente attendibili che popolano la rete si trovano concordi nello smentire un'informazione proveniente dall'esterno (quando di solito accade il contrario), oppure l'ennesima dimostrazione di come a quelle infinite voci sfugga sempre l'essenziale.
Certo è che per arrivare all'informazione che mi interessa questa volta mi devo rivolgere ad altri mezzi.