domenica 15 aprile 2012

Varchi e cose simili

Tempo fa mi ripromettevo di tornare a parlare di Montale entrando un po' di più nel merito. L'occasione è data da un compito di italiano che ho dovuto finire e consegnare in fretta e furia sotto gli occhi irremovibili  (vabbe', affascinanti e irremovibili) del mio professore che aveva fretta di andarsene. Fare in due ore un compito pensato per essere svolto in sei si porta dietro qualche inconveniente: ad esempio, l'ultima colonna è sempre una giungla di geroglifici che una volta decifrati si rivelano frasi sconnesse e idee non spiegate. E stavolta, la sensazione di non essere riuscita a dire tutto è più forte.
Per cui ricominciamo. Qui almeno non sono obbligata a individuare i versi sdruccioli.
La casa sul mare
ll viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l'anima che non sa più dare un grido.
Ora i minuti sono eguali e fissi
come i giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d'acqua che rimbomba.
Un altro, altr'acqua, a tratti un cigolio.
Il viaggio finisce a questa spiaggia
che tentano gli assidui e lenti flussi.
Nulla disvela se non pigri fumi
la marina che tramano di conche
I soffi leni: ed è raro che appaia
nella bonaccia muta
tra l'isole dell'aria migrabonde
la Corsica dorsuta o la Capraia.
Tu chiedi se così tutto vanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell'ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti che no, che ti s'appressa
l'ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s'infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi.
Vorrei prima di cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei sommossi campi
del mare spuma o ruga.
Ti dono anche l'avara mia speranza.
A' nuovi giorni, stanco, non so crescerla:
l'offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.

Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m'ode
salpa già forse per l'eterno.
Anche senza questo, amerei Montale per la sua capacità di esprimere la fatica e l'asprezza dell'esistenza, per la messa in discussione del ruolo della poesia al di là della retorica, per la ricerca problematica di valori autentici da contrapporre alla stupidità, all'ignoranza, al conformismo del momento storico (e non solo).
Ma quando si comincia a parlare di varchi, come in questa poesia -o nei Limoni, ad esempio- ho bisogno di fare un discorso un po' più lungo.
Nella poesia di Montale c'è un tentativo continuo di uscire dal movimento circolare e ripetitivo del tempo, che scandisce la vita umana, e accedere all'infinito -o all'assoluto, o a una dimensione metafisica, comunque si voglia chiamarla: insomma, di cogliere il senso complessivo e profondo dell'esistenza, che altrimenti si presenta come una catena meccanica e insensata di cause ed effetti. Ma il varco ogni volta si dilegua appena intuito (come nei Limoni) oppure appare fin da subito impenetrabile (come in Meriggiare pallido e assorto). Il viaggio dell'uomo finisce sulla spiaggia, nell'aria appesantita dai mulinelli di sabbia e dal vento. Lì vicino, la pompa idraulica ripete i suoi movimenti sempre uguali. Il mare è inaccessibile, l'orizzonte è coperto. Il vate che si fonde panicamente con la natura e ne espugna i segreti è un'illusione buona per i lettori  di d'Annunzio; Montale sa che neanche il poeta può sottrarsi all'immanenza e alla ciclicità opprimente del tempo. Può farlo, forse, la donna che è con lui. L'autore lascia aperta la possibilità che alcuni possano accedere a una dimensione superiore, ma sembra sperarlo più che crederlo; come se avesse bisogno di sapere che esiste, almeno in sé, un senso che vada al di là dell'aridità della nostra vita fisica.
Ecco, visto che ho scritto in sé quacuno avrà già capito dove voglio andare a parare. Non lo faccio apposta a infilare Kant ovunque, ma La casa sul mare somiglia in modo impressionante a un passo della Critica della ragion pura  che ho già citato in questo post. Kant, proprio nel momento in cui afferma che il mondo è sottoposto allo spazio, al tempo e al meccanicismo perchè questo è l'unico modo in cui le nostre facoltà riescono a inquadrarlo, lasciando intravedere l'esistenza di una cosa in sé che vada oltre, si affretta a chiudere questa possibilità, perché l'uomo non deve perdere tempo con ciò che non può conoscere. Finiti come siamo, non possiamo andare oltre il fenomeno; ma questo, per quanto riduttivo, è l'unica base solida su cui possiamo costruire la nostra conoscenza. Anche se l'uomo ha un insopprimibile bisogno di assoluto, a pretendere troppo ci si arena negli errori e nella confusione.
Questa conclusione può soddisfare un filosofo che si muove in una prospettiva più che altro scientifica, non un poeta della crisi. Montale sa che l'uomo è un anello della catena naturale sottoposto a una necessità cieca, o almeno questo è ciò che può sapere di sé: ma la cosa non è rassicurante, è frustrante. E' frustrante non poter scoprire l'anello che non tiene, non poter sovvertire ogni disegno. Forse tutto questo dipende anche dal momento storico: quando un movimento nasce dal nulla e in pochi anni si impone come regime senza incontrare ostacoli significativi, è difficile pensare di poter sovvertire i disegni della storia (quello che poteva essere evitato si verificò di fatto come se fosse una necessità ineluttabile); quando dall'alto si tende ad appiattire, a massificare e a sopprimere la libertà, è facile sentirsi imprigionati in una ciclicità senza scopo, e desiderare qualcosa che vada al di là. Montale ha troppa onestà inellettuale per rifugiarsi in una visione consolatoria, sa di non poter attraversare il varco, ma non accetta quest'idea con la stessa serenità di Kant.
Ora. Anche sulla serenità di Kant, in realtà, non metterei la mano sul fuoco: dopo il 1781, sistemati i conti con la scinza e non dovendo più preoccuparsi di distinguere cos'ha validità teoretica e cosa no,  ha passato la vita a cercare di rendere l'uomo, e il mondo che lo circonda, qualcosa di più che semplici ingranaggi.
Nella Critica della ragion pratica il modo per sottrarsi al fenomenico è l'azione morale: come corpo l'uomo è sottoposto alle leggi della natura, ma quando sceglie di agire moralmente è libero. Nella Critica del Giudizio Kant si sbilancia, e dice che nella bellezza siamo autorizzati a scorgere una finalità, e che nell'ordine della natura possiamo intuire un'intenzione, e forse anche pensare che qualcuno l'abbia creata per noi. Purché questo bisogno umano non pretenda di avere validità scientifica, e di elevarsi a certezza. (tutto questo non centra molto con Montale; ne ho parlato solo per dire che neanche Kant, alla fin fine, è riuscito ad accontentarsi del fenomenico).
Tra Kant e Montale ovviamente c'è Schopenhauer, è lui il primo a non accettare il fenomeno. Da Schopenhauer (e da Leopardi) Montale prende non solo questa storia dei varchi e dei veli squarciati, ma anche l'idea della vita come fatica e sofferenza. Tra i due sinceramente non so chi è più pessimista: uno riesce senza troppi problemi a lacerare il velo, ma quando arriva alla cosa in sé si accorge che è proprio quella il fondamento della sofferenza umana, che è la volontà di vivere a toglierci ogni libertà. Per Montale invece il dolore e l'insensatezza appartengono al fenomenico, nella metafisica c'è un senso e un sollievo. Peccato non poterci arrivare.
 (Mi scuso se questo post è particolarmente lungo)

2 commenti:

  1. E allora dillo che le mie privatissime confessioni filosofiche a poeti morti e sepolti ti fanno da ispirazione uhuhuh!
    Ps: se questo è un esempio di 'tema della Benedetta' credo proprio che non avrò speranze di prendere più di un sette a questo ultimo compito. Bah, mi rintano nel mio libriccino di poesiucole che è meglio.

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    1. Questo post potrebbe essere ribattezzato: viva l'autostima

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